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mercoledì 9 dicembre 2015

#LIBRI PIACIUTI / "Chirù", di Michela Murgia (recensione di M. Ferrario)

Michela MURGIA, "Chirù", Einaudi, 2015
pagine 191, € 18,50, ebook € 9,99

Un romanzo che schiera il lettore
Impossibile l'indifferenza. 
Il nuovo romanzo di Michela Murgia, Chirù, spacca probabilmente i lettori in due campi: chi alla fine, posando il libro, si ritrova appagato e ricco di pensieri da rimuginare e chi, deluso dalla vicenda che appare ingarbugliata e non facile da dipanare, manifesta un'insoddisfazione più o meno profonda, magari anche irritata. 

Per quanto mi riguarda io sto decisamente tra i primi: più che soddisfatto. 
Mi hanno catturato sia la storia che lo stile espositivo: la prima, tutta avvolta nella relazione pedagogica fra la voce narrante, Eleonora (quarantenne, attrice) e il giovane, Chirù (diciottenne, studente di violino al conservatorio); il secondo, impareggiabile per l'uso elaborato, minuzioso e anche armonioso di un linguaggio che un po' ti avvolge con un periodare ampio, denso, meticolosamente curato ed espressivo e un po' ti spiazza per l'asciuttezza con cui vengono scavati e scolpiti sentimenti e stati d'animo.

La trama è semplice. Chirù si offre come allievo ad Eleonora, perché questa lo introduca nel mondo artistico, gli insegni a muoversi al meglio nell'ambiente e più in generale lo accompagni nello sviluppo di se stesso, facilitandogli il passaggio all'adultità. Eleonora prima rifiuta, poi nicchia, alla fine accetta: già in passato aveva svolto lo stesso ruolo per tre giovani e l'esperienza era stata positiva per due di essi, mentre per il terzo l'insuccesso si era rivelato tragico. 

Il fuoco è dunque la relazione di 'mentorato' tra una maestra e un allievo, vista soprattutto con gli occhi, la testa e il cuore della prima. Tutto parte da una sensazione di comunanza tra i due protagonisti, ben espressa da subito da Eleonora: «Vorrei poter dire che quella tra noi fu un’immediata affinità elettiva, ma sarebbe una menzogna: io Chirù lo riconobbi dall’odore di cose marcite che gli veniva da dentro, perché quell’odore era lo stesso mio.» 
L'esplorazione di quanto accade segue la mappa variegata di tutte le tinte psicologiche spesso realisticamente correlate ad un processo pedagogico: molti colori accesi, intensi, brillanti; molti grigi; molti chiaroscuri. Il tutto in un alternarsi quanto mai ambivalente di impulsi, emozioni, vissuti, che svelano, da ambo le parti, disponibilità, voglia di dare e ricevere aiuto, genuino interesse al legame, seduzione reciproca, ma anche un gioco, più o meno consapevole, di potere, espresso in un'alternanza di volontà di dominio, manipolazione, arroganza, freddo opportunismo. 
Lo scavo è profondo: le descrizioni delle dinamiche sono acute, dense, penetranti; i dialoghi sono raffinati, asciutti, essenziali. Ne consegue una lettura esigente: che non ammette distrazioni e pretende concentrazione. Ma il premio per chi si lascia catturare e attivamente partecipa all'esplorazione di questa relazione, in tutte le sue pieghe, anche le più ambigue, e in tutti i suoi rivoli che rimandano anche al passato dei protagonisti, è alto, perché ci si ritrova a vivere in diretta un'esperienza energica, vitale, per nulla intellettualistica, illuminata - come sempre avviene appunto in una relazione pedagogica che sia tale: dunque che intenda 'lasciare il segno' - da un 'eros' sottile e insieme potente: un eros che genera e alimenta desiderio, attiva pulsioni, smuove affetti, così scuotendo e perturbando relazione e protagonisti.

Certo, se si cerca un divertimento spensierato e una lettura svagata, questo romanzo è sconsigliato. 
Ma se si è disposti a lasciarsi sedurre da un'indagine che ha per tema l'intrico di sentimenti, anche contraddittori, generati da un processo pedagogico non si può che restare ammirati per la padronanza dell'autrice nel governare contenuto e linguaggio: il desiderio, chiuso il libro al capitolo finale, di riaprire la prima pagina e magari riprendere e approfondire alcuni passaggi, riscorrendo la trama, è il segnale più lampante che il fascino del racconto ha colpito. Forse, anzi, ha anche positivamente turbato. 

*** Massimo Ferrario, per Mixtura

«
La dimensione dell’attrazione non può essere esclusa dall’affiancamento. Anzi, credo che non scatterebbe nessuna elezione se non ci fosse un’attrazione a farla iniziare. 
– Ma tu lo consideri un pericolo o un valore? 
La domanda non era priva di lati taglienti. Sapevo che ogni cosa, dentro al gioco delicato che portavo avanti con gli allievi, era fondata sul desiderio, perché il desiderio stesso era la condizione indispensabile dell’apprendimento. E su cosa altro avrebbe potuto fondarsi, del resto? Non esisteva alcun ruolo su cui appoggiare la mia autorità, e anche l’essere definita maestra era a tutti gli effetti un furto semantico. Qualunque diritto e dovere mi legasse a loro, non avrebbe mai potuto aggrapparsi al sangue: mi si affidavano, ma non ero la loro madre. Non ero titolata ad agire in nome di nient’altro che il desiderio, un desiderio che non poteva essere nominato, ma solo agito, e agirlo era l’unico modo che avevo avuto per salvare me stessa e loro. Se fossi stata per Chirù solo una madre, una madre logica disposta a rivendicare la supremazia su quella biologica, quel titolo terribile ci avrebbe divorati entrambi. La volontà di una maternità assoluta l’avrebbe reso per me un figlio eterno, stritolato dai denti segreti di un utero razionale che non avrebbe concepito alcuna libertà fuori da sé. Se però fossi stata una maestra e nient’altro per Teo e Alessandro, li avrei perduti una volta esaurito il percorso di formazione, nel momento misterioso e terribile in cui l’allievo non si riconosce piú tale. Se fossi stata la loro amante li avrei segnati di me senza ritorno, rubando loro il diritto a farsi imprimere la memoria del corpo da qualcuno che disponesse del solo potere dei sensi, mentre io avevo anche tutti gli altri. La madre, l’amante e la maestra erano una triade simbolica che non poteva perdere neppure un tassello: le prime due si facevano la guardia a vicenda, e la terza ricordava a entrambe che il privilegio di quella tensione aveva il tempo contato. Sapevo di essere un insieme di queste cose, ma allo stesso tempo non ne ero alcuna pienamente. Proprio su quell’incompiutezza si reggeva l’equilibrio che rendeva possibile l’affiancamento. Rinunciare a uno di quegli aspetti o assumerne uno soltanto significava essere disposta a far sedere i miei demoni accanto alle persone di cui pretendevo di indirizzare il destino. (Michela MURGIA, Chirù, Einaudi, 2015)

Era necessaria un’arroganza senza limiti per immaginare di accostarsi a una persona che non sa dove sta andando e coltivare la presunzione di potergli rendere la via piú chiara. Nell’atto stesso di insegnare a qualcuno quel che sapevo, riconoscevo la superbia insita del ruolo della docenza, l’idea intimamente violenta che l’altro fosse una creta della cui forma potevo contribuire a determinare la qualità. Quella superbia era facile verificarla nella scelta stessa degli allievi: di tre che ne avevo avuti prima di Chirú non c’era neanche il figlio di un povero cristo, di un operaio, di un disoccupato. La mia amica Teresa mi aveva rimproverato spesso di essere classista e io avevo negato ogni volta, ma sapevo che c’era qualcosa di fondato nella sua critica. Nessuno poteva accusarmi di aver volutamente cercato allievi avvantaggiati, ma le circostanze in cui ciascuno di loro mi era arrivato in mano non si sarebbero potute verificare che con ragazzi fortunati in partenza, capaci di riconoscere e cogliere l’opportunità di un incontro con un adulto disposto a fare una scommessa. (Michela MURGIA, Chirù, Einaudi, 2015)
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