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martedì 24 marzo 2015

#SPILLI / Imprese e neolaureati (M. Ferrario)

E' notizia di qualche mese fa. 
Articolo di Gloria Riva, Lavoro, "cercasi giovani laureati". Ma nessuno si presenta, 'L'Espresso', 15 dicembre 2014. 
Sottotitolo: Un contratto di apprendistato da 22 mila euro l'anno, auto, telefono e altri benefit non trova candidati. Le società di selezione: "Non c'è corrispondenza tra domanda e offerta". E migliaia di posti di lavoro rimangono vuoti 

Non ho dati specifici e sto a quanto leggo. Ma se le cose stanno come è scritto, con la disoccupazione giovanile a oltre il 40%, forse qualcosa urgerebbe venisse fatta.
Sì, d'accordo, oggi è entrato in vigore il tanto decantato Jobs Act. Ma mi pare che l'articolo tocchi una questione che va al di là della tipologia del contratto di lavoro offerto: precario o 'a tutele crescenti'.
Perché forse il tema chiave riguarda il lavoro in sé: il lavoro che viene proposto e non viene accettato.
Magari sarebbe utile una duplice riflessione.
Dalle aziende, sulle 'posizioni' per cui stanno facendo ricerca: la loro natura, la loro specifica 'reputazione' pubblica.
E dai giovani disoccupati. 

Le prime, magari, almeno nel caso di posizioni di taglio più commerciale, potrebbero agire sull'immagine, spesso squalificata, di 'venditore'. 
Un'immagine che naturalmente non si cambia cambiando il nome con operazioni cosmetiche manipolative (la terminologia inglese in proposito si è esaurita da tempo...), ma cambiando, in molti casi, la 'sostanza' richiesta. Facendo cioè chiaramente capire a candidati ancora inesperti che la 'volpinaggine' di chi cerca di intortare il cliente e l'aggressività di chi si affida al 'piedino introdotto nella porta' non fanno parte della politica di vendita dell'azienda che sta cercando personale. Potrebbe funzionare da rassicurazione importante. E servirebbe a insegnare che il mestiere di venditore, se svolto in modo serio, è un mestiere serio. 

E i secondi, i giovani neolaureati (almeno quelli, se esistono davvero, che si permettono di rifiutare, in momenti come questi, opportunità di lavoro), dovrebbero darsi una mossa. 
Se no, poi, non possono lamentarsi (ripeto: questi che rifiutano) se qualcuno gli dà dei 'bamboccioni'. Magari protetti (e castrati) da una mamma che continua a rifargli il letto, a viziarli in cucina e a passargli la paghetta mensile. 

Insisterei però a responsabilizzare, più di quanto avvenga, le aziende. 
Forse il cambio è semplice. Anche se, appunto per questo, difficilissimo. 
Proprio per il profondo rispetto che ho per il mestiere di chi 'vende' (se svolto come si dovrebbe), credo che aziende, e venditori stessi, al di là dei seminari e dei manuali che da una vita insegnano (o fingono di insegnare) uno stile di ascolto e attenzione ai bisogni del cliente (la denominazione di 'venditore-consulente' risale a parecchi lustri fa), debbano forse riflettere su quanto invece ancora si affermi, nella pratica, un comportamento tutto all'opposto: che mescola aggressività e furbizia, invasività e orientamento a 'chiudere' l'ordine in qualunque modo, focus assoluto sul brevissimo e presa in considerazione solo dei risultati quantitativi. 
Perché se l'immaginario del mestiere non è dei migliori, qualcosa vorrà pur significare. 
A meno di prendere la comoda fuga, deresponsabilizzante e vittimistica, che attribuisce sempre ad altri le nostre responsabilità. 
L'analisi di realtà, tuttavia, ci dice che in genere siamo noi che complottiamo contro noi stessi. 

*** Massimo Ferrario, per Mixtura

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