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mercoledì 17 febbraio 2021

#MOSQUITO / Una lingua per l'Europa (Tullio De Mauro)

L’inglese si può forse ritenere una lingua un po’ più “bastarda” delle altre, ma tutte lo sono, a cominciare dal latino, impregnato non solo di elementi greci, ma anche di parole etrusche o, comunque, non indoeuropee, come urbs, miles, populus, publicus, orbis. Quando il papa recita la sua benedizione urbi et orbi, pronuncia una formula intrisa di etrusco. Caso non unico: il latino ha ereditato come parole chiave, per dire il cielo e la città, vocaboli etruschi. Cose analoghe valgono per il greco. Tutte le lingue sono “bastarde”. L’inglese, forse, lo è un po’ più delle altre. Un dato curioso, di nuovo unificante, è che un dizionario degli anglismi diffusi recentemente nelle lingue europee dimostra che essi sono in larghissima parte latinismi che consentono una qualche intercomprensione nella scrittura tra i neolatinofoni (francesi, italiani, spagnoli, portoghesi, romeni) e i tedeschi, gli ungheresi, i russi ecc., a dispetto delle diverse pronunce. 

Le lingue servono per comunicare, e non sappiamo come tale bisogno si articolerà in futuro. Attualmente l’inglese è il principale strumento di comunicazione globale, considerato anche il fatto che un miliardo di persone in India lo parla correntemente, anche se si tratta di un inglese piuttosto diverso da quello diffuso nelle Isole britanniche e negli Stati Uniti. Tuttavia, non è detto che l’inglese continui a svolgere questo ruolo. Ci sono, infatti, altre grandi lingue transglottiche: il russo, l’arabo, il cinese mandarino, lo spagnolo. Barack Obama, nel suo discorso d’insediamento alla Casa Bianca, ha rivolto il suo primo saluto alla popolazione in spagnolo e in inglese. Non deve stupirci: la metà meridionale degli States è ormai ispanizzata, e i latini sono molto più aggressivi degli anglosassoni in fatto di lingua. Già ora si è osservato che in internet la percentuale di testi in inglese va diminuendo rapidamente, anche se è sempre altissima, a beneficio di documenti scritti in altre lingue, persino in italiano e in cinese. La prospettiva, da qui a cinquant’anni, potrebbe essere completamente mutata. E ciò che bisogna fare, se si vuole comunicare con il resto del mondo, è avere rapporti con una pluralità di lingue. 
Attualmente l’inglese è il passepartout più comodo. Meglio si impara e meno si cadrà in abusi. Che la sua adozione cancelli le identità nazionali è tutto da dimostrare. Qualche volta, sui giornali, sono riportate notizie false: per esempio, che in molte università dei Paesi Bassi parte delle lezioni si svolga in inglese è ritenuto un sintomo del fatto che gli olandesi stanno ormai abbandonando la propria lingua per l’inglese. In realtà, l’uso diffuso dell’inglese nell’apprendimento di materie di studio è basato sulla giusta convinzione che ciò serva a stabilizzare in profondità la conoscenza di tale lingua nei futuri specialisti. Ma è sbagliato pensare che il Belgio fiammingo o l’Olanda vogliano abbandonare i loro idiomi. Si tratta di lingue “piccole” dal punto di vista della base demografica, ma coloro che le parlano non hanno alcuna intenzione di abbandonarle. Lo stesso vale per il lituano e per lo svedese. Queste popolazioni sono fortemente bilingui: hanno adottato a tutti i livelli sociali la conoscenza di un’altra lingua, in qualche caso di altre due, oltre quella nativa. Noi italiani dovremmo imparare questa lezione, perché non abbiamo una grande propensione all’apprendimento e all’uso di lingue straniere, e questo rappresenta un fattore di debolezza nazionale. 

L’esistenza di lingue transglottiche, che i linguisti chiamano anche “di superstrato”, non ostacola la vita di lingue locali: anzi, concorre al loro effettivo sviluppo. Il latino, lo abbiamo già detto, nella storia linguistica europea ha gettato ponti tra le diverse tradizioni linguistiche. Così fa oggi l’inglese. In India e in altri sessanta paesi con diverse lingue native, l’adozione dell’inglese nel ruolo di lingua “transglottica” non ha cancellato gli idiomi locali, così come non cancellarono gli idiomi locali il greco nel mondo orientale antico e il latino nell’Europa medievale e moderna. 
[…] 

Ma a quale lingua soprattutto rivolgerci nella vita civile e politica di una piena democrazia unitaria dell’Europa? La risposta è stata già data dai numeri allineati più su, dalle propensioni prevalenti in tutt’Europa. Se vogliamo un’Europa in cui i cittadini, per riprendere l’idea di Aristotele, parlino una lingua per discutere e decidere insieme “che cosa è giusto e che cosa no, che cosa conviene e che cosa no” per la comune pólis europea, oggi questa lingua è senza dubbio l’inglese. Ma senza un rifiuto, dannoso e improponibile, dalla ricca diversità linguistica che ereditiamo dal passato, che abbiamo esportato negli altri continenti e che ci caratterizza nel mondo.
Per una volta, gli italiani possono proporre un esempio positivo tratto dalla loro storia: negli ultimi cinquant’anni abbiamo imparato l’italiano senza cancellare i nostri diversi dialetti. Sappiamo in pochi chi erano Graziadio Isaia Ascoli e Giacomo Devoto, ma ne abbiamo assimilato e praticato la raccomandazione, ci siamo muniti largamente di biglietti di andata e ritorno (diceva Devoto) tra italiano e dialetto, portando certo molta cultura nazionale nei dialetti, ma sforzandoci anche di usare l’italiano con la spontaneità con cui appena ieri sapevamo usare solo il nostro dialetto nativo. 
Lo stesso come europei dovremo fare con l’inglese, portare nel suo uso tutta la ricca varietà di culture, di significati e di immagini delle diverse lingue, senza abbandonarle, e portare nelle nostre lingue il gusto della concisione e della limpidezza dell’inglese.

*** Tullio DE MAURO, 1932-2017, linguista, In Europa sono già 103, Laterza, 2014 (Capitolo Una lingua per l'Europa?), citato da Vera Gheno, facebook, 16 febbraio 2021, qui


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