Pagine

sabato 22 giugno 2019

#LIBRI PREZIOSI / "I rassegnati", di Tommaso Labate (commento di Massimo Ferrario)

Tommaso LABATE, I rassegnati. 
L’irresistibile inerzia dei quarantenni
Rizzoli, 2018, pagine 220, € 17,99, ebook € 9,99

Trovare il colpo d’ala: dedicato a chi sta in mezzo (ma non solo)

Ho appena posato il bel saggio di Tommaso Labate, I rassegnati. L’irresistibile inerzia dei quarantenni (Rizzoli, 2018): poco più di 200 pagine, che volano via in poco più di 2 ore. 
E una cosa soltanto mi viene da dire, a questo punto, con assoluta certezza: leggetelo. 
Lo so, violo una regola che tutti conosciamo: mai dare consigli, specie in un campo quanto mai scivoloso come la lettura, dove il gusto soggettivo la fa, giustamente, da padrone. Ma qui non si tratta di un libro che deve ‘piacere’: una fiction più o meno intrigante, una trama più o meno accattivante, dei personaggi più o meno azzeccati. Al di là dell’età che avete, che siate compresi o no nella fascia di cui fa parte l’autore e che è chiamata in questione dal titolo, il racconto (duro e impietoso, perché somma pensieri scomodi e puntuti e talvolta tira cazzotti allo stomaco) è un affresco sociale tra il saggio sociologico, l’inchiesta giornalistica e la confessione autobiografica e offre una mappa saporita, ricca di annotazioni di costume e di episodi storici poco controvertibili: irritanti, benché spesso gustosi e inediti, che toccano il mondo del lavoro, dell’impresa, della politica. 

La panoramica riguarda ognuno di noi: direttamente, la generazione dei nati attorno agli anni 70, che è la protagonista dell’affettuoso e appassionato ‘cannoneggiamento’, e, indirettamente, ma non meno pesantemente, altre due fasce di età. La prima è quella dei padri ultrasessantenni, ormai giunti più o meno pasciuti al termine delle loro carriere lavorative, in ruoli apicali e vicini al ‘privilegio’ della pensione: sono colpevoli (così almeno io, da settantenne, sostengo da tempo) di aver commesso, o comunque di non aver impedito, qualcosa di simile a un ‘futuricidio’ nei confronti di figli e fratelli minori. E la seconda è quella dei figli di questi quarantenni, giovani e giovanissimi, forse i meno responsabili di tutti per trovarsi ‘gettati’ in una vita di precarietà totale (non solo professionale), alle prese con progetti esistenziali amputati, conti di fine mese che non tornano, lavoretti che restano sempre lavoretti e non acquistano mai la dignità di un lavoro decente. Insomma, se dessimo ancora valore alle parole ‘serie’ dovremmo ammettere: chi in misura maggiore, chi in misura minore, tutti ci ritroviamo spinti a navigare, da anni, nell’oceano tempestoso di uno ‘sfruttamento continuo’, che nessuno (noi per primi) riesce, se non a evitare, quanto meno a contenere e controllare.

Certo, il lettore ideale è uno che sa stare al gioco condotto da Labate ben sapendo che ‘non’ è un gioco. E’ un lettore che apprezza la maestria di chi è capace di raccogliere e tenere insieme la quantità strabordante di argomenti e fatti concreti che non fanno sconti alla generazione sotto ‘processo’, rimuginando sulla minuziosa documentazione che accompagna ogni possibile accusa di insufficienza e mancanza di coraggio, e sa contenere e trasformare un certo fastidio di fondo, provocato dalla tonalità sicuramente incalzante e sferzante dell’analisi, attivando quella facoltà, quanto mai benefica, anche se oggi sempre più scarsa, che lo porta prima a (ri)pensare e, magari poi, a interrogarsi: mettendosi una buona volta ‘in discussione’ (altra espressione divenuta detestabile perché svenduta dal ‘blabla’ che divora tutto), smettendo di lagnarsi per il ‘destino cinico e baro’, o proiettando sugli altri la propria indolenza, e predisponendosi a un possibile e auspicabile cambio di azione. 

Naturalmente, come sempre, non esistono ricette per uscire dallo stagno, ma solo condizioni che possono propiziare il colpo d’ala che ci faccia alzare e ce lo faccia lasciare alle spalle. Esistono solo  presupposti generali, forse pure generici: ma, se una magica congiunzione astrale, unita alle nostre ritrovate capacità di (ri)’scatto’, ci favorisse la magia della loro realizzazione, sarebbero necessari e probabilmente sufficienti. Si sintetizzano in tre parole, che hanno purtroppo il difetto di essere ormai usurate e quindi di suonare insopportabilmente vuote e retoriche. Eppure se, dopo l’accettazione di una analisi autocritica per definizione sempre anche spiacevole, approfondissimo, noi con noi stessi, il significato vero di una igienica ‘presa di coscienza’ (prima condizione), potremmo capire che l’azione solitaria, e atomizzata, cui ci siamo costretti da anni, è inconcludente e masochistica e che unico possibile rimedio al non perpetuare lo stallo è decidere finalmente di dare contenuti, con altri compagni di rassegnazione e inerzia come noi, ad una ‘alleanza attiva solidale’ (seconda condizione). E’ infatti da questo nuovo atteggiamento, non più isolato e ripiegato sul nostro ombelico, che può scaturire (dipende molto da noi) un ‘coraggio’, non incosciente ma lucido e determinato, che ci dà la spinta per non temere più quella fisiologica e necessaria ‘contrapposizione’ (terza condizione), anche intergenerazionale, ma comunque rivolta verso chiunque goda di poteri non sempre meritati, che crea benefici conflitti generativi: e quindi salutari spazi nuovi, aria non più viziata, posizioni finalmente di dignità sia sul piano umano che lavorativo.

Ci sarebbe da aggiungere una notazione non secondaria: sulla scrittura. A conferma che la forma aiuta sempre la sostanza e in particolar modo quando la sostanza ha di per sé un sapore aspro e ruvido che la potrebbe rendere faticosamente digeribile, un merito non trascurabile del libro sta nello stile. 
Chi conosce Labate per i suoi scritti giornalistici (sul ‘Corriere della Sera’) o per le sue presenze televisive (ad esempio nelle ‘maratone elettorali’ di Mentana su ‘La7’) non rimane stupito: la sua cifra è un periodare ampio, che si concede alle subordinate senza mai essere arzigogolato e talvolta diventa pirotecnico o funambolico; è spesso ironico-sarcastico; non ‘scivola’ sui concetti o sui personaggi di cui parla, ma li sente propri, ci si appassiona ed è così che appassiona; sa divagare con intelligenza per costruire aneddoti che spiegano meglio il punto e catturano l’interlocutore. Qui, in forma scritta, ritroviamo questo taglio in tutto e per tutto. E sono impareggiabili alcune annotazioni, umoristiche ma drammaticamente vere perché quanto mai centrate nella loro essenzialità, che dileggiano il mondo del lavoro (professionisti, manager, responsabili del personale) e della politica. Sono momenti che accreditano la grande verità ricordata da Italo Calvino: si può essere leggeri senza cadere nel superficiale. Anzi, la leggerezza è il modo principe per far rimarcare, con serietà e non con seriosità, le cose che contano: per aiutare ad avere lo sguardo dall’alto. Quella visione che non rinuncia a stigmatizzare, quando serve, ma lo fa, magari anche con maggior impatto perché con la frusta di un sorriso canzonatorio: sapendo usare la vena satirica e immettendo, nell’osservazione della realtà, talvolta necessariamente e utilmente giudicante, un po’ di sana, pur se critica, distanza benefica.

Anche per questo mi è capitato, leggendo, di far uso di gomma e matita: per sottolineare e ‘chiosare’, come si diceva ai tempi degli studi, le righe che mi sembrava meritassero di non restare disperse. In fondo questa abitudine resta un buon criterio per valutare se una lettura merita di essere continuata. Il risultato è che alla fine mi sono ritrovato una quantità innumerevole di evidenziazioni: e questo ovviamente non accade ai libri che scivolano via come l’acqua sui sassi, ma solo a quelli, davvero stuzzicanti, che ti obbligano a (ri)pensare: qualche volta a non essere d’accordo, altre volte a concordare, sempre comunque a rimuginare altri pensieri che ti fanno venire nuovi pensieri.
Non capita di frequente. Quando accade, chi scrive, a dispetto del titolo che in questo caso è lanciato addosso alla generazione di cui lui stesso è membro, oltre a non apparire per nulla rassegnato e inerte, ci regala la possibilità a nostra volta di non esserlo. E solo per questo andrebbe ringraziato. 

Qui di seguito, dopo essermi forzato ad una dura selezione, propongo alcuni tra i tanti possibili scampoli che possono far venire voglia di andare, oltre le citazioni, alla fonte diretta.

*** Massimo Ferrario, Trovare il colpo d’ala: dedicato a chi sta in mezzo (ma non solo), 'Direzione del Personale', rivista trimestrale di Aidp, n. 189, giugno 2019

CITAZIONI
(1) - «Trentanove è il numero simbolo di una generazione fallita o sull’orlo del fallimento. Una generazione fregata dai padri, che pure avevano consegnato l’illusione che a un’infanzia felice e a un’adolescenza bellamente turbolenta sarebbero seguiti anni di benessere, serenità, sollievo, pace. Una generazione che non genera figli, come impietosamente fotografato da tutte le rilevazioni statistiche. Trentanove è l’età media del Rassegnato. Se nell’ottobre 2017 il Censis ha stabilito che uno dei sentimenti più diffusi tra gli italiani è il rancore – covato indifferentemente contro il migrante che cerca fortuna tra i disperati, contro il vicino di casa che ha i figli col contratto a tempo indeterminato, contro i pochi esemplari sopravvissuti della vecchia famiglia della pubblicità del Mulino Bianco – i trentanovenni a vita sono quelli che si cibano di rassegnazione. Sono i Rassegnati.» (Tommaso Labate, I rassegnati, Rizzoli, 2019)

(2) - «Hai consegnato anche solo due pizze, portando a casa nemmeno dieci euro lordi? Bene, sei un lavoratore. Sei la gioia del politico che sta al governo, e che grazie a te può rivendicare la bontà delle leggi emanate e delle strategie perseguite. E sei però anche la gioia del politico che sta all’opposizione, che grazie alla tua sofferenza può contestare le ricette difese dal politico che sta al governo. Sei la delizia del ministero del Lavoro, visto che col tuo misero «più uno» aggiunto in calce alle cifre sugli occupati potrà rivendicare un dato che senza di te sarebbe stato meno positivo, foss’anche di una sola unità. E sei anche il dolce babà del sindacato, che se la prende con la controparte perché ha conteggiato la tua misera ora di lavoro insieme ai dati di chi ha un contratto a tempo indeterminato. L’effetto che scaturisce la pubblicazione di ogni bollettino Istat sul numero degli occupati, da qualche anno a questa parte, è che i governi e le opposizioni di turno lo appallottolano e iniziano a lanciarselo come se fosse una pallina da tennis su una superficie veloce. Lo spediscono nel campo dell’avversario, che a sua volta lo rispedisce nel campo altrui. «Cresce il numero dei lavoratori, avevamo ragione noi» urla il governo. «Ma crolla il numero delle ore lavorate» risponde l’opposizione. «Siamo tornati ai livelli di occupazione pre-crisi» s’esalta il governo. «Ma sono tutti contratti precari» ribatte l’opposizione. La partita a tennis dura giorni, i tifosi sugli spalti esaltano l’una o l’altra squadra, alla fine non vince nessuno. E si va avanti così, di bollettino Istat in bollettino Istat. La questione di fondo, stavolta, sta in cima. Essere considerati lavoratori anche solo per un’ora è come essere censiti tra i ricchi anche se in tasca hai solo un euro.»
«Illusi da quella presunta dittatura meritocratica degli anni Novanta che non si sarebbe mai imposta, disposti a regalare il proprio tempo e a lavorare gratis, imprigionati da uno schema che avrebbe portato lo «stagismo» a rappresentare il cuore pulsante del nostro essere, invece che diventare un tassello del nostro divenire, i venti-trentenni di vent’anni fa sembrano aver imboccato un tunnel senza uscita. Che si sia più ricchi o più poveri, paradossalmente, è quasi un aspetto secondario. L’angoscia perenne di una telefonata o di una e-mail che può certificare la fine di un lavoro, di una collaborazione e pure la fine della «visibilità» è sempre la stessa. Cambia intensità e gradazione, certo. Ma di quello si tratta, in fondo: di una esistenziale condizione di angoscia perenne.» (Tommaso Labate, I rassegnati, Rizzoli, 2019)

(3) - «La mancata solidarietà generazionale è quella che ci ha portato a guadagnare meno, molto meno, dei nostri pari-grado o omologhi delle generazioni precedenti. Perché un’azienda dovrebbe pagare di più un quarantenne quando sa perfettamente che due quarantenni della stessa azienda non solo non si alleeranno mai ma addirittura si odiano? Perché un imprenditore dovrebbe pagare regolarmente le fatture a due collaboratori a partita Iva quarantenni se sa perfettamente che ciascuno dei due vede nell’altro una minaccia e non un compagno di lotta? Dovrebbe pagare perché è giusto, direte voi. Certo, infatti molti pagano bene e regolarmente. Per chi non lo fa, però, non c’è sanzione.» (Tommaso Labate, I rassegnati, Rizzoli, 2019)


In Mixtura ark #LibriPreziosi qui

Nessun commento:

Posta un commento