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lunedì 20 maggio 2019

#MOSQUITO / La categoria del migrante e la normalità 'concessa' (Aboubakar Soumahoro)

Una mattina di febbraio di alcuni anni fa camminavo sul marciapiede a Lentate sul Seveso, in provincia di Monza. All’improvviso, un’automobile grigia di grossa cilindrata si fermò accanto a me e un distinto signore abbassò il finestrino, mi squadrò e mi disse: “Tu sarai sempre a piedi”. 

A distanza di anni conservo ancora un ricordo vivido di quell’episodio di per sé insignificante. Non era certo la prima volta che qualcuno mi si rivolgeva con toni sprezzanti senza nemmeno conoscermi. I migranti si confrontano ogni giorno con episodi del genere, battute, sguardi e commenti intrisi di latente razzismo. Però per molto tempo mi sono domandato perché quell’uomo si sentisse in diritto di disprezzarmi senza conoscere il mio nome, la mia storia, il mio paese, il mio lavoro e le ragioni per le quali quel giorno mi trovavo a camminare a piedi. Probabilmente gli era sufficiente il mio grado di melanina. 

Con il passare degli anni ho capito che quest’episodio era una manifestazione di un processo culturale e politico che ha trasformato una parte della nostra popolazione in una “categoria speciale”. La costruzione della categoria del migrante è un dispositivo che confina centinaia di migliaia di persone in “gabbie” economiche, sociali e culturali. Si pensi anche solo alle persone immigrate che ricoprono ruoli istituzionali o affini (consiglieri, assessori, parlamentari, sindacalisti, scrittori, artisti, imprenditori ecc.) e spesso finiscono per occuparsi esclusivamente di temi legati all’immigrazione o a problemi dei loro paesi di provenienza, come se non avessero la capacità di elaborare pensieri complessi su altre questioni. Si tratta di un dispositivo sofisticato, che chiamerei di “categorizzazione”. Questo processo culturale consiste nell’accentuare le differenze identitarie e, sulla base di queste, classificare una parte delle persone mettendole in posizione di subalternità rispetto al resto della popolazione. Queste “persone categorizzate” vengono viste come un corpo estraneo al tessuto sociale e una serie di barriere culturali e politiche ostacolano il loro libero accesso a determinate dimensioni socio-professionali. Purtroppo, gran parte delle persone etichettate rimane impigliata in questa rete e i pochi che riescono a eludere le barriere entrano a fare parte di una normalità “concessa” e non conquistata. In questa “normalità accordata”, la rivendicazione dei propri diritti viene sostituita dalla richiesta di favori arbitrariamente concessi, con effetti logoranti e focolai di inconscio rancore che hanno conseguenze potenzialmente negative per le comunità.

*** Aboubakar SOUMAHORO, 1980, attivista e sindacalista Usb italo-ivoriano, Umanità in rivolta. La nostra lotta per il lavoro e il diritto alla felicità, Feltrinelli, 2019


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