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sabato 19 gennaio 2019

#FAVOLE & RACCONTI / 'Ubuntu' e il cestino di frutta (Massimo Ferrario)

Un giovane studioso straniero, interessato a conoscere i costumi dei popoli africani, è appena giunto in un villaggio.
Un gruppo di una decina di bambini sta giocando con una ruota malandata di una vecchia bici.
A turno la fanno correre in uno spiazzo che separa alcune capanne: sono abilissimi nel passarsi il cerchione senza farlo cadere e lo straniero li osserva con simpatia.

E' metà mattina.
Il giovane ha tolto lo zaino dal gippone posteggiato all'ombra di un grande albero e ha appena recuperato dallo zaino un panino fatto preparare nella locanda che usa come base per i suoi viaggi quotidiani nei diversi villaggi.
In piedi, si gusta la colazione.

Poi, proprio mentre mentre continua a osservare i ragazzini, ha un'idea.
Sempre dallo zaino toglie un cestino di frutta.
Rigoglioso. Enorme. Di una bellezza sfolgorante: la cuoca della locanda aveva composto un cesto degno di finire in un quadro di un grande pittore.

Lo straniero si avvicina ai bambini con il cesto.
Loro smettono di correre dietro al cerchione e si fermano: osservano, incuriositi, il nuovo venuto, sorridendogli.
«Vi piace la frutta?», chiede loro lo straniero con voce invitante.
Un attimo di imbarazzo. Sembrano indecisi. Poi, in coro, tutti rispondono di sì.
«Allora vi propongo un gioco. Vi va?».
I bambini, contenti, annuiscono vistosamente, tutti insieme.

Lo straniero si allontana di una cinquantina di metri e pone il cestino a terra ai piedi dell'albero più imponente del villaggio.
Da qui grida ai bambini.
«Vediamo chi corre più veloce tra voi. Il primo che raggiunge l'albero ha in regalo tutto il cestino. Io faccio da arbitro».
I bambini si guardano: si trasmettono con gli occhi un messaggio di intesa.
«Siete pronti?», li incita il giovane.
Come prima, il solito coro di sì.
Si dispongono uno vicino all'altro come ci fosse una perfetta linea di partenza disegnata sul terreno.
Lo straniero li prepara con il rituale conto alla rovescia e dà il via.

I ragazzini, prima di scattare all'unisono, attendono qualche decimo di secondo: ognuno guarda in faccia il compagno come per rassicurarsi reciprocamente che manterranno l'accordo.
Poi, tutti insieme, partono. E, tutti insieme, arrivano.
Anche il giovane, nel suo ruolo di arbitro, non è in grado di stabilire la vittoria di nessuno.

Raggiunto l'albero, ancora ansimanti, i bambini si lasciano cadere ai suoi piedi.
Poi, il più grande prende il cestino e tutti, con calma e senza spintonarsi, si dividono la frutta, cercando di soddisfare i gusti di ognuno. Nessuno protesta per quanto ricevuto e, sempre con i volti atteggiati a grandi sorrisi, cominciano a sbocconcellarsi i frutti.

Il giovane straniero è meravigliato.
E rivolgendosi al gruppetto di bambini non riesce a trattenere il suo commento.
«Se uno di voi avesse corso per arrivare primo, si sarebbe preso tutto il cestino. Non mi direte che tra voi non c'è qualcuno che va più forte degli altri, vero?».
I bambini scuotono il capo, come a far capire che l'uomo non sa quel che dice.
Poi uno dei più piccoli urla una parola: "Ubuntu"
E tutti gli altri, ad una voce sola, ripetono forte: "Ubuntu".

Lo straniero continua a non capire.
Parla per tutti il più grande, alzandosi in piedi: si sta sbucciando una banana gigante.
«Secondo la tua regola, signore, se uno solo di noi fosse arrivato primo si sarebbe preso tutta la frutta. Vero. Ma non sarebbe stato felice. Ti chiedo: come si fa a essere felici se tutti gli altri sono tristi perché sono rimasti senza frutta?».

Il vecchio del villaggio, da lontano, aveva assistito al gioco, in silenzio e senza farsi vedere.
Ridacchiava, soddisfatto.
Si avvicina allo straniero.
«Non voglio intromettermi, signore. Solo spiegare: io non conosco il tuo mondo, ma so che non è come il nostro. E forse questi bambini ti hanno un po' sconcertato».
Lo dice con benevolenza, scoprendo i pochi denti che gli sono rimasti in un sorriso che vuole trasmettere amicizia.
Lo straniero guarda in faccia il vecchio, chinando il capo in segno di saluto e di rispetto.
«Ti prego: se mi spieghi te ne sarò grato».
«I bambini hanno gridato 'ubuntu'. Forse è una parola che non hai mai sentito nominare».
«Infatti. E' la prima volta che la sento pronunciare. Del resto sono arrivato da poco in Africa e sto cercando di conoscere i vostri costumi e le vostre abitudini».

Il vecchio non è sorpreso: ha incontrato molti stranieri nella sua vita che ignorano cosa sia 'ubuntu'.
E' contento di essere utile al giovane. E poi è orgoglioso della cultura del suo villaggio.

Mettendoci tutta la fierezza di cui è capace, inizia a spiegare. 
«Per noi, signore, 'ubuntu' è una parola semplice che dice una cosa semplice. E' il nostro insegnamento fondamentale, tramandatoci dai nonni e dai nonni dei nostri nonni: i bambini lo ricevono quando ancora non sanno parlare. Alla mia età non mi sorprendo di incontrare chi viene da lontano e non la conosce. Sorrido sempre: per voi stranieri è strano ciò per noi è normale, per noi africani è strano ciò che per voi è normale. Del resto appunto per questo siamo stranieri, non ti pare, signore?».

La pausa di qualche secondo è voluta: fa crescere l'attenzione del giovane e vuole amichevolmente stuzzicarlo.

Infatti il giovane, per nulla infastidito anche dalla battuta sull'essere reciprocamente stranieri, fa segno di sì con la testa.
«E' vero, vecchio. Tante volte anch'io ci penso: siamo tutti esseri umani, eppure quanta diversità di valori e comportamenti».

Il vecchio, rassicurato, riprende.
«Allora forse ho incontrato finalmente qualcuno meno straniero degli altri: chissà che non ci intendiamo... Ma bando alle chiacchiere: anche nel tuo mondo capita che i vecchi si perdano troppo in divagazioni? Se è così, ecco una cosa che unisce le nostre lontananze...».

Il giovane non può non pensare a suo nonno e a tutte le volte che lo va a trovare: quando inizia a raccontare è delizioso, ma bisogna avere metà giornata libera.
«Credo tu abbia ragione. In questo, almeno, tutto il mondo è paese...».
Il vecchio, confortato, riprende: ora non si farà più distrarre.
«Allora, 'ubuntu', dicevamo. E' un termine quasi sacro, per noi: dice il senso profondo dell'essere umani. Per noi è una verità oggettiva, che tutti possono sperimentare: non è una credenza che ci viene dagli dei o dal cielo. Per tutto il nostro villaggio, ma anche per molti altri villaggi del continente, 'ubuntu' è un dato di realtà. Noi siamo umani solo attraverso l'umanità degli altri: se realizziamo qualcosa nel mondo, di bello o di brutto, di buono o di cattivo, certo molto dipende da noi, ma molto ancora più dipende dal lavoro di tutti. E gli altri ci sono indispensabili, perché da soli contiamo poco o nulla. 'Ubuntu' ci esorta a sostenerci e aiutarci reciprocamente, a prendere coscienza non solo dei nostri diritti, ma anche dei nostri doveri reciproci: è desiderio di pace, di convivenza armoniosa, di messa in comune dei nostri tratti migliori. E' consapevolezza di una interdipendenza naturale che ci lega e ci ricorda l'umanità di cui siamo fatti. Nella nostra lingua abbiamo una frase fondamentale, che è il cuore dell''ubuntu': 'io sono perché noi siamo'. Guai a dimenticarla.».

Al giovane straniero vengono in mente i tanti libri di antropologia letti nei corso degli studi: molti parlavano, con sufficienza se non con disprezzo, di popoli primitivi.
Il vecchio, prima, lo aveva gratificato confidandogli un'intuizione: forse lui era meno straniero di altri.
Chissà.
Però è vero che mai come in quel momento il giovane studioso, pensando al mondo da cui proviene, sente la pesantezza di quel termine: straniero.
E gli viene spontaneo accennare un inchino di sentita riverenza, ma allo stesso tempo di tenera e affettuosa vicinanza umana, al vecchio saggio africano. 

*** Massimo Ferrario, 'Ubuntu' e il cestino di frutta, per Mixtura. Libera riscrittura di un testo diffuso via internet da diversi siti.


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