Quante sono le probabilità che, in pochi anni, in una città come Firenze due italiani che tra loro nemmeno si conoscono prendano una pistola e sparino al primo senegalese che gli capita a tiro? E quante sono le probabilità che entrambi i senegalesi uccisi si fossero sposati con la stessa donna, rimasta vedova due volte nel medesimo tragico modo? Pochissime, forse nessuna, ma la vita non si cura dell’improbabile e Rokhaya Mbengue detta Kenne, la donna a cui una mano armata italiana ha ucciso in sette anni entrambi i compagni di vita, lo ha imparato nel peggiore dei modi.
Per lei nel 2009 in Senegal è cominciata una storia che in Italia, terra da cui i nostri nonni e bisnonni sono emigrati verso ogni dove, conosciamo molto bene: gli uomini partono a cercare lavoro, le donne restano a casa ad aspettare e a crescere i figli, nella speranza che le cose migliorino e ci si possa ricongiungere. Così, mentre Kenne restava in Senegal con la sua bambina, suo marito Samb Modou arrivava in Italia per cercare lavoro e provare a offrire loro un futuro migliore. Non ci sarebbe stato invece alcun futuro per Samb: una mattina Gianluca Casseri, fascista, razzista e militante di Casa Pound, che odiava gli immigrati, è andato al mercato e ha sparato ai primi neri che gli sono capitati a tiro.
Tra i due morti c’era lui, Samb, il marito di Kenne. «Un tragico caso» hanno scritto i giornali, una fatalità che non significa niente; «l’Italia non è razzista» ha commentato il sindaco, «Casseri era un pazzo esaltato come ce ne sono ovunque». Forse era così, forse no, ma per Kenne non era importante. «La mia vita si è spezzata, ho pensato che non mi sarei mai più ripresa». Quel tipo di vuoto non si riempie mai veramente, ma Kenne ha dovuto essere più forte del dolore anche in nome della figlia Fatou, rimasta senza padre e senza sostegno economico per crescere. Su consiglio della famiglia, quella donna ferita appena trentenne si è risposata con un cugino del marito morto, Idy Diene, un uomo gentile sulla cinquantina, che si trovava in Italia dal 2001 e si era occupato delle pesanti burocrazie necessarie al rientro della salma di Samb.
Diene si era rivelato subito una scelta fortunata: non solo l’aveva riscattata dalla condizione di vedova, ma da mesi si era già assunto la responsabilità di mantenere lei e la bambina. Un nuovo inizio per lei, ma stavolta Kenne non ha voluto stare lontana da quel marito devoto e protettivo: accolta dalla comunità senegalese, è riuscita ad arrivare in Italia e a trovare lavoro come badante nella stessa Firenze dove una mano razzista le aveva ucciso il primo compagno. Vite non facili le loro: lavori pesanti, gli sguardi diffidenti di un Paese che negli immigrati vede sempre più una minaccia, precarietà assoluta a dispetto dell’età di Diene che avanza, ma comunque sono insieme.
Poche settimane fa, però, Roberto Pirrone, un pensionato fiorentino pieno di debiti, prende un’arma da fuoco ed esce per strada con l’intento annunciato di uccidersi; lungo la strada cambia idea, si mette a scegliere un altro bersaglio e alla fine spara a un ambulante senegalese, qualcuno la cui vita gli deve forse essere parsa valere persino meno della sua. Con rabbia gli scarica addosso tre colpi e molti altri lo mancano, quando è già ferito a morte. L’ambulanza arriverà dopo pochi minuti, ma da fare non ci sarà più nulla. Quell’uomo mite che vendeva ombrelli e fazzoletti all’angolo di uno dei ponti da cartolina di Firenze era Idy Diene. Il dolore di Kenne, l’assurdità di questa nuova perdita e la paura della comunità senegalese avrebbero dovuto suggerire alle istituzioni della città una vicinanza immediata e una presa assoluta di distanza dall’ipotesi di un altro omicidio razzista, ma per molte ore questo non accade e l’indifferenza e il silenzio scatenano la protesta spontanea della comunità senegalese, impaurita da queste sparatorie e addolorata per i suoi morti innocenti.
Il corteo dei connazionali di Diene e Kenne attraversa le vie, rovescia qualche fioriera, poi si placa impotente. Paradossalmente chi aveva taciuto per la morte di Diene trova invece pronte parole di biasimo per i danni alle suppellettili cittadine causati da quella protesta. La comunità senegalese li ripagherà pochi giorni dopo con una colletta al suo stesso interno, ma la differenza morale tra chi protestava per un innocente assassinato e chi si preoccupava dell’arredo urbano deve restare, perché significa che quella morte è qualcosa di più di un semplice fatto di cronaca come mille altri.
L’omicidio di Diene ha coinciso con le elezioni che hanno visto crescere le percentuali dei partiti xenofobi ed è avvenuto ad appena due giorni dalla morte del giovane e amatissimo capitano della Fiorentina: nel lutto cittadino dedicato a quella perdita c’è stato bisogno che si mobilitassero persone da tutta Italia per dire a Kenne e ai suoi connazionali che questo è un Paese dove la solidarietà e l’accoglienza sono più forti del razzismo. Per ora, almeno. Dopo anni di discorsi pubblici dove gli immigrati sono stati indicati come colpevoli dei problemi degli italiani impoveriti, la temperatura sociale dell’Italia è cambiata anche nella rossa Toscana. Dire che l’uomo che ha sparato a Idy Diene «non era un militante di destra» non significa che quella morte è casuale. Significa che non c’è più bisogno di essere razzisti per credere che gli stranieri siano la causa dei problemi del Paese e che ucciderli, cacciarli o sperare che muoiano in mare mentre arrivano sia la soluzione.
*** Michela MURGIA, scrittrice, Assurdo come il male, 'Messaggero di sant'Antonio', 21 aprile 2018, anche in facebook, 27 aprile 2018, qui
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