Ho smesso di considerare la lentezza sempre in maniera negativa e ho cominciato a riflettere su come essa possa iscriversi in una visione più complessa e più sfumata dell’esperienza umana. Lentezza intesa come gironzolare, sostare, procedere esitando, considerati non più come disvalori, come segni di fannullaggine, come perdite di tempo – espressioni che oggi invece usiamo tanto spesso. Lentezza che diventa sempre più occasione di scoprire diverse forme di temporalità, conoscenze che altrimenti, nell’agitazione, non possono essere visibili. La lentezza che insomma si riempie: non più ritardo, ma possibilità di sviluppare esperienze che altrimenti andrebbero perdute. Dunque vagare, esitare, muoversi lentamente, non come fatto negativo, ma come sperimentazione di spazi ricchi di vita, quasi un accostarsi più aperto alle cose, un indugio che schiude sentieri, vie, luoghi altrimenti inaccessibili.
Non più soltanto, allora, la classica rivendicazione operaia del tempo libero, ma la nuova rivendicazione di momenti che possano contenere una modulazione più ricca dell’esperire. Quasi che i campi della vita potessero essere conosciuti, direi assaporati, solo attraverso scansioni più lente e forse proprio per questo più ricche. Ecco perché ho parlato con insistenza di elogio della lentezza. Ho cercato di riflettere su una diversa nozione dell’utilità del tempo e delle sue cadenze. (...)
Sento che quando affrontiamo l’esperienza della contemplazione, che pure sembra tanto assurda, tanto pacata, tanto silenziosa, mandiamo a schiantare con forza tanti modi di essere della società in cui viviamo. Introduciamo differenze e rotture, mettiamo in luce nuove scale di valori.
Ho vissuto per affermare il peso, la presenza, il diritto del lavoro, il valore che si esprime nel fare, contro la mortificazione operata dal dominio capitalistico. In questo tempo ultimo della mia vita, però, sono portato a una visione più problematica. Oltre a ragionare su chi fa, sa fare e si esprime nel fare, tendo a ragionare anche su altre forme di soggettività, su altri modi di essere – sui deboli e sugli incapaci, per esempio – chiedendomi se non si debba dilatare più imperiosamente questa scala di valori. Se non si debba, per lo meno, incominciare a sviluppare un discorso che non riguardi soltanto la riscossa dei proletari – e sapete quanto questa mi abbia coinvolto – ma anche, più ampiamente, i valori dei deboli, degli incompiuti, addirittura, degli incapaci.
Mi domando se davvero si debba restare legati a una visione svalutativa, o se essi non dicano invece qualcosa a cui tutti noi, anche noi comunisti, dovremmo schiuderci. Siamo troppo onnilavoristi, troppo presi dalla qualità e dal tempo del lavoro e dell’atto lavorativo, immersi in questa nostra società così difficile, trascinata alla corsa.
*** Pietro INGRAO, 1915-2015, politico e militante comunista, intellettuale, poeta, Il valore della contemplazione, Castelvecchi, 2017
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