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domenica 23 aprile 2017

#RACCONTId'AUTORE / Il pappagallo (Rabindranath Tagore)

C’era una volta un uccello del tutto ignorante. Cantava sempre, ma non conosceva le sacre scritture. Saltellava e svolazzava, ma ignorava cosa fosse la buona creanza. 
Il re sentenziò che un simile uccello era nocivo poiché si cibava dei frutti del bosco e danneggiava il mercato. 
Chiamò allora il ministro e gli ordinò di ammaestrare l’uccello.

* * *
Il compito di educarlo venne affidato al nipote del re. 
I sapienti del regno si riunirono e discussero a lungo sulle cause dell’ignoranza dell’animale.
La conclusione fu questa: il nido che l’uccello si costruisce con delle semplici pagliuzze è inadatto a contenere sapienza. Per cui, prima di ogni altra cosa, era necessario costruire una buona gabbia.
I sapienti, ottenuta la ricompensa, se ne andarono soddisfatti.

* * *
L’orefice cominciò la costruzione di una gabbia d’oro.
Era così bella che accorrevano grandi folle da ogni paese per ammirarla.
Qualcuno disse: «Godrà del massimo dell’educazione.
Un altro disse: «Anche se non verrà educato avrà pur sempre la gabbia. Che uccello fortunato!».
L’orefice ottenne una forte ricompensa e felice fece ritorno anch’egli a casa.
Uno dei sapienti cominciò ad ammaestrare l’uccello. Fiutando tabacco da naso sentenziò che erano necessari molti libri.
Il nipote del re fece chiamare dei copisti, che prepararono per il pappagallo copie di libri e copie delle stesse copie. Ne scrissero una montagna.
Tutti i presenti dicevano: «C’è tanta scienza che questa gabbia non può più contenerla».
I copisti caricarono dei buoi con i profitti del loro lavoro. Tornarono alle loro case, ormai liberati dalla povertà.
I nipoti del re sorvegliavano continuamente la gabbia. Vi si facevano riparazioni ogni giorno.
Vedendo la gabbia in ordine, lucida e pulita, tutti asserivano: «La sapienza progredisce».
La cura della gabbia richiedeva un gran numero di inservienti e per sorvegliare costoro era necessario uno stuolo di persone anche maggiore.
Tutti ricevevano grandi quantità di denaro ogni mese e i loro scrigni erano pieni.
Costoro e i loro parenti erano felici e tutti ormai vivevano in dimore signorili.

* * *
Nel mondo mancano molte cose, tranne gli scontenti, che sono in numero persino eccessivo.
Costoro dissero: «La gabbia è a posto, però nessuno si cura dell’animale».
Queste parole giunsero all’orecchio del re, che chiamò il nipote per domandargli se fosse vero.
Il nipote rispose: «Signore, se il re vuole conoscere la verità chiami gli orefici, i sapienti, i copisti, gli artefici e i sorveglianti. Gli scontenti fanno critiche perché non guadagnano nulla».
Udita questa riposta, il re comprese perfettamente come stavano le cose e immediatamente cinse con una collana d’oro il collo del nipote.

* * *
Il re desiderava verificare personalmente i progressi dell’educazione dell’uccello. Così un giorno capitò nella scuola con un seguito di cortigiani, ministri e amici.
Sin dall’ingresso si udiva un concerto di molti strumenti: campane, conchiglie, tamburi, trombe e flauti.
I sapienti cominciarono a leggere i libri sacri a voce alta, oscillando il capo.
Operai, artefici, copisti, sorveglianti e i loro parenti di ogni grado gridavano di gioia per onorare il re.
Il nipote invitò il re ad ammirare lo spettacolo.
Rispose il re: «E’ meraviglioso. Il rumore è grande».
«Non è soltanto rumore, in tutto questo si esprime un profondo significato!» aggiunse il nipote.
Il re lasciò la scuola soddisfatto e stava per salire sul suo elefante.
E proprio allora uno degli scontenti, che si era nascosto in un cespuglio, esclamò: «Mio re, hai veduto l’uccello?».
Il re trasalì e disse: «Me ne sono dimenticato! Non l’ho ancora veduto».
Tornò indietro e disse ai sapienti che voleva vedere in che modo fosse educato l’uccello. Ne fu molto soddisfatto. Il metodo di educazione era più importante dell’uccello stesso, che appariva quasi superfluo.
Il re si persuase che non venivano risparmiati gli sforzi: nella gabbia non c’era cibo né acqua, ma con la punta della penna si ficcavano nel becco del pappagallo mucchi e mucchi di fogli strappati da una gran pila di libri.
Nella sua gola piena di carta la voce non trovava spazio per cantare. Era uno spettacolo orribile. 
Prima di salire sull’elefante il re ordinò alle guardie di torcere per bene le orecchie dello scontento.

* * *
Quanto più l’educazione dell’uccello progrediva, tanto più le sue forze diminuivano.
I custodi erano pienamente fiduciosi.
Obbedendo, però, ancora all’istinto, ogni mattina il pappagallo si volgeva verso oriente e agitava le ali in modo sconveniente.
Talvolta tentava anche di spezzare le sbarre della gabbia con il becco indebolito.
Il guardiano diceva: «Che svergognato!».
Venne nella scuola il fabbro armato di martello, soffietto e fuoco. Rinforzò con nuovi fili di ferro la gabbia e fece strappare le ali all’uccello.
I cognati del re, scuotendo la testa, dicevano con tono solenne: «In questo regno gli uccelli non solo difettano d’intelligenza, ma anche di gratitudine!».
Nuovamente i dotti con la penna in mano e il pungolo nell’altra ricominciarono, ricominciarono la fatica dell’istruzione.
I guadagni del fabbro intanto si moltiplicavano e sua moglie era adorna di gioielli d’oro.
Il re ricompensò con il dono di un elmo la solerzia del guardiano.

* * *
Il pappagallo morì. Ma nessuno al momento se ne accorse.
Il solito scontento annunciò al re ciò che era accaduto.
Il re chiamò il nipote e gli chiese se la notizia rispondesse a verità.
Il nipote rispose: «Sì, e ora l’istruzione dell’uccello è completa».
Il re domandò: «Salta ancora?».
«Per niente.»
«Vola?»
«No.»
«Canta?»
«No.»
«Schiamazza ancora quando ha fame?»
«No.»
«Portalo qui. Lo voglio vedere.»
Gli fu portato l’uccello. Il re palpò il pappagallo, che rimase immobile al cospetto di guardie, servi e cavalieri.
Solo nel suo ventre si udì, quando il re lo toccò, il rumore delle pagine accartocciate dei libri.
Fuori, nella brezza della nuova primavera, le giovani foglie della foresta fiorita riempivano il cielo, stormendo, di lunghi sospiri. 


*** Rabindranath TAGORE, 1861-1941, poeta, scrittore e filosofo indiano, premio Nobel per la letteratura nel 1913, Lipika. Biglietti dall’India, 1919, Oscar Mondadori, Milano, 1993. 

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