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sabato 4 febbraio 2017

#FAVOLE & RACCONTI / La prepotenza, e la lezione del maestro Wu Zhi (M. Ferrario)

Il maestro Wu Zhi aveva acconsentito con fatica e solo perché era legato da affetto sincero a Li Min. Il giovane allievo di un tempo, infatti, lo aveva pregato con insistenza e lui tutto avrebbe voluto tranne che passare per chi si fa pregare, rischiando di apparire prezioso. 

Da anni ormai si erano separati. 
Wu Zhi si era definitivamente ritirato nel piccolo monastero a metà collina: faceva lunghe passeggiate nei campi e per i boschi, coltivava l'orto, meditava, scambiava pensieri con un piccolo numero di giovani che erano riusciti a farsi accettare come discepoli. Raramente scendeva in città e le volte in cui accadeva, frastornato dall'andirivieni della gente e dai rumori dei carri sempre troppo numerosi, trovava nuove conferme alla sua scelta di sano isolamento.
Li Min, invece, aveva dato sbocco alla sua vocazione di insegnante ed era stato assunto in una delle scuole di maggior prestigio della città, frequentata da ragazzi di famiglie facoltose, desiderosi di seguire le orme dei genitori, arricchendosi con gli affari e il commercio.

Quella mattina, nella grande aula della scuola, c'era una attesa incontenibile.
Li Min, da giorni, aveva preparato l'evento straordinario, tessendo le lodi di Wu Zhi: aveva raccontato del suo lungo periodo di formazione trascorso tanti anni prima con il maestro, sottolineando il valore del suo insegnamento, mai banale e scontato, ma sempre capace di stimolare la riflessione, soprattutto al di fuori dei binari consueti.
I ragazzi erano impazienti: sempre puntuali all'apertura delle lezioni, quel giorno erano giunti tutti con grande anticipo, confluendo nel salone, approntato per l'occasione anche con festoni di benvenuto, da ogni classe. 
In prima fila era seduto l'intero corpo insegnante: tutti conoscevano la fama di Wu Zhi, ma finora nessuno aveva avuto occasione di incontrarlo, anche per la ben nota ritrosia del maestro a farsi vedere in pubblico. Nei giorni precedenti ognuno aveva avuto modo di manifestare la sua gratitudine al collega Li Min per essere riuscito a organizzare un simile incontro. Ora la curiosità per quanto avrebbero ascoltato era al massimo: insegnanti e studenti sedevano compunti, parlottando sottovoce. In attesa trepidante, come si suole dire.

Quando Wu Zhi, allo scoccare esatto dell'ora stabilita, si affacciò alla porta dell'aula accompagnato dal rettore, tutti i presenti scattarono in piedi come un corpo solo: chinarono il capo in segno di rispetto, congiungendo le mani nel tradizionale saluto orientale.
Per primo parlò il rettore: solo poche parole per profondersi in inchini e omaggi verso Wu Zhi e dire che la sua venuta costituiva un grande onore per la scuola. 
Li Min notò lo sforzo del maestro per dissimulare un fondo di fastidio: soltanto lui lo colse, anche perché conosceva la sua irresistibile antipatia per ogni tipo di cerimonia e per la retorica che sempre vi si accompagna. Anche per questo, rubò non più di un minuto per introdurre il maestro nel modo più semplice e secco possibile. E soprattutto anticipò che neppure lui era al corrente del tema oggetto della lezione. Infatti, quando insieme avevano concordato l'intervento, avevano solo condiviso l'utilità che venisse toccato un tema cruciale per l'educazione dei giovani. Ma nulla più. 
Come non fosse già alta, l'attesa crebbe ulteriormente. E insegnanti e studenti, nel silenzio più assoluto, puntarono gli occhi su Wu Zhi: finalmente avrebbe parlato.

Wu Zhi lasciò trascorrere qualche secondo. 
Roteò gli occhi sulla platea, pennellandola con lo sguardo in lungo e in largo. 
Poi fissò una studentessa, seduta in terza fila.
A lungo.
Sembrò a tutti che il tempo non passasse mai. 
Wu Zhi aveva il volto corrucciato.
Quando aprì bocca, la voce era alterata.
Dura, secca, tagliente: sembrava uno sparo.
«Voglio sapere il tuo nome, ragazza».
Gli insegnanti, seduti in prima fila, si voltarono, cercando di individuare la ragazza oggetto della domanda.
E la giovane, all'inizio, si guardò in giro: non era sicura di essere lei a dover rispondere. Forse qualche collega si era mostrato disattento: il maestro se n'era accorto e si era infastidito. Ma lei certo non poteva essere rimproverata di nulla.
Wu Zhi, sempre puntando con gli occhi la ragazza, ripeté la domanda, con tono ancora più sbrigativo e scortese. 
«Sì, dico a te, ragazza. L'hai capito benissimo... Esigo il tuo nome. Subito».
A questo punto la giovane avvampò: imbarazzata, si alzò, chinando il capo. 
«Mi chiamo Dan Liang, maestro».
Wu Zhi puntò il dito contro la studentessa: la voce ormai tradiva la sua ira.
«Esci subito dall'aula, Dan Liang. Immediatamente. E non farti più vedere da me.»

Un gelo si diffuse dappertutto. 
Insegnanti e ragazzi erano sgomenti: non capivano cosa stesse accadendo.
Dan Liang aveva le lacrime agli occhi.
Guardò i compagni con aria interrogativa: cercava spiegazioni, magari anche supporto.
Cosa aveva fatto di male?
Con voce strozzata tentò di argomentare.
«Ma maestro, io... veramente... vi assicuro... non ho...».
Wu Zhi la interruppe brutalmente:
«O tu o io. Fuori, ho detto. Se non te ne vai, me ne vado io. E non voglio attendere un secondo di più».

Dan Liang si alzò: piangendo si fece strada tra i colleghi, guadagnando la porta dell'aula quasi correndo e nascondendo le lacrime dentro un fazzoletto.
Tutti, in silenzio, le fecero spazio, guardandosi l'un l'altro con occhi stralunati e sbigottiti.

Anche Li Min assisteva con sorpresa all'accaduto: impossibile capire le ragioni del comportamento di Wu Zhi. Eppure, ne era convinto, una motivazione doveva esserci.
Tutti gli insegnanti, dalle prime file, cercarono gli occhi di Li Min, come per chiedere cosa avrebbero dovuto fare. Wu Zhi era il grande maestro che tutti onoravano e la sua autorevolezza, indiscussa, intimidiva: però forse, stavolta, avrebbero dovuto intervenire. Come potevano lasciar correre un simile comportamento? 
Li Min restava seduto alla cattedra accanto al maestro, apparentemente impassibile. Si limitò a comunicare con gli occhi ai colleghi di attendere: non sapeva come, ma era sicuro che l'evolvere delle cose avrebbe chiarito tutto.

Su tutta la sala, comunque, gravava una tensione gelida: e il silenzio generale sembrava insopportabile.

Fu a questo punto, dopo che la ragazza era uscita chiudendosi la porta della sala alle spalle, che Wu Zhi si rasserenò in viso: e il cambiamento di umore lo colsero tutti.
Fece un grande sospiro: poiché non si curò di nasconderlo, si sentì sino agli ultimi posti.
Si guardò in giro con calma studiata.
«Bene, ragazzi. Qualcosa da dire?»
Nessuno fiatò.
A metà aula, solo una ragazza fece per alzarsi e prendere la parola. Ma i colleghi, seduti a fianco, la strattonarono, costringendola a restare seduta e sussurrandole di non parlare.
A Wu Zhi la cosa non sfuggì.
Stavolta con voce dolce e faccia rasserenante, ripeté la domanda:
«Forse qualche studentessa vuole intervenire...?».
La giovane desistette, dando retta ai compagni.
Ancora silenzio generale.
Rettore e insegnanti scambiarono una seconda occhiata, quanto mai intensa, con Li Min: ma pure stavolta ricevettero l'invito, silenzioso e implicito, ad attendere.
Wu Zhi riprese la parola.
«Perfetto. Se non ci sono commenti, possiamo dedicarci alla nostra lezione».

L'atmosfera era tesa.
Gli occhi erano tutti puntati sul maestro.
Wu Zhi, con lentezza studiata, dopo aver abbandonato la cattedra, aveva percorso metà lunghezza della sala e si era fermato, ritto in piedi, al centro: la sua statura, superiore alla media, troneggiava e anche chi era seduto più lontano non poteva non cogliere anche i più piccoli movimenti del viso.
«Ora rivolgerò una domanda a tutti voi. Naturalmente prego gli insegnanti di lasciar rispondere gli studenti: do infatti per scontato che loro conoscano la risposta. Prego invece gli studenti di non essere timidi e di intervenire... Siamo pronti per procedere?».

Nessuno rispose.
Wu Zhi sentiva gli occhi di tutti che lo trafiggevano.
Senza far aspettare troppo, riprese.
«Bene. Diciamo che vige il silenzio-assenso: il fatto che nessuno mi abbia detto di no significa che volete procedere. Ecco allora la questione: chi mi sa dire a cosa servono le leggi?».

L'invito a superare la timidezza non fu sufficiente.
Nell'aria, evidentemente, c'era ancora l'eco dell'accaduto: la cacciata inspiegabile di Dan Liang impediva la concentrazione sul tema.

Il maestro, per la prima volta, fece un sorriso bonario: tutto il suo corpo, ora, comunicava disponibilità  e interesse alla relazione.
Iniziò a camminare lungo la grande sala, guardando gli studenti con occhi caldi e invitanti.
«So che molti avrebbero qualcosa da dire. Mi hanno detto che questa scuola è frequentata da giovani intelligenti e studiosi. Io non ho fretta. E sono fiducioso.»
Ma nessuno osava.
Wu Zhi ovviamente sapeva che il clima, specie dopo l'incidente con Dan Ling, aveva bisogno di tempo per riscaldarsi.
Con pazienza e dolcezza, riprovò quindi a sollecitare il coinvolgimento degli studenti.
«Impossibile che nessuno abbia una risposta. E io, senza la vostra partecipazione, non so dirvi nulla che possa avere un minimo di interesse. Perché, spero lo sappiate, non esiste la formazione: esiste l'apprendimento. E l'apprendimento richiede il contributo attivo di chi apprende. Senza questo, alcuni miei amici occidentali hanno una 'bella' parola per definire l'inutilità della formazione. Dicono: è solo 'blabla'. Aria. Aria che sposta altra aria. O, se preferite, come io la chiamo, 'aria fritta'... Ecco, a me l'aria fritta non piace. Preferisco l'aria fresca e pulita dei boschi del mio monastero. Immagino sia così anche per voi... O sbaglio?».

Una crepa si produsse nell'atmosfera glaciale della sala: qualche sorriso, qualche assenso, qualche battuta sussurrata al compagno.
Poi, finalmente, un giovane prese coraggio:
«Maestro, avete chiesto a cosa servono le leggi. Per creare ordine allo stare insieme?».
Wu Zhi scosse visibilmente il capo più volte, in segno di evidente e sicura approvazione.
«Buona risposta, ragazzo. E grazie di aver rotto il ghiaccio. Condivido. Anche se ciò che dici coglie un aspetto. Importante, ma 'un' aspetto. E uno non è tutto. Vediamo se qualche tuo collega, o qualcuna delle tante ragazze qui presenti, vuole aggiungere altro....».

Si diffuse un leggero brusio.
E Wu Zhi manifestò subito la sua piena soddisfazione:
«Mi piace il brusio. Significa persone che parlano tra loro. Che cercano insieme. Si danno contributi, consigli, pareri. Discutono. Insomma, non credono che uno da solo, isolato dagli altri, abbia la verità. E infatti, se mai raggiungiamo qualcosa che ha a che fare con la verità, questa la raggiungiamo insieme... E sempre minuscola, naturalmente...».
Gli studenti, rassicurati, incrementarono il parlottio

Intervenne un giovane alto dell'ultima fila.
«Per far sì che l'ordine in una società si mantenga nel tempo?»
Wu Zhi assentì:
«Giusto. E grazie anche a te. Ma non solo. C'è dell'altro. Avanti... Datemi altre risposte».
Un altro ragazzo fece sentire la sua voce:
«Per punire chi non osserva le leggi?».
«Corretto. Ma non basta...».
Si alzò la ragazza che prima avrebbe voluto dire qualcosa sulla cacciata dall'aula di Dan Liang ed era stata trattenuta dai compagni.
«Per creare e assicurare giustizia?»
Il maestro gongolò visibilmente:
«Perfetto. Hai ben completato ciò che i tuoi colleghi hanno detto. La giustizia è un valore e un fine fondamentale. Le leggi concorrono a promuoverlo. Se sono costruite con lo spirito del bene comune, e non con l'animo di parte di chi vuole perseguire solo i propri interessi particolari, sono uno strumento essenziale per affermare, appunto, la giustizia. Tuttavia... A questo punto, nasce un 'ma'. Si impone cioè una seconda domanda: cosa vuol dire 'giustizia'? Cosa vuol dire 'essere giusti', secondo voi?».

Gli studenti ormai si erano scaldati.
Il tema venne esplorato in ogni suo aspetto. Piovvero risposte, concitate, sovrapposte, spesso concatenate, talvolta ripetute, ma sempre centrate.  Come: 'garantire i diritti civili di ognuno', 'assicurare il bene comune', 'reprimere i comportamenti cattivi', 'essere equanimi', comportarsi con trasparenza e rettitudine', 'non essere prepotenti', 'penalizzare i violenti e gli arroganti', 'rispettare ogni essere umano', 'non trattare le persone come cose', considerare le persone come fine e mai come mezzo'... ».

L'argomento evidentemente aveva appassionato e gli studenti parevano aver perso ogni timore.
Wu Zhi raccoglieva i contributi, soddisfatto: ogni volta manifestava il suo accordo e ringraziava.

Solo quando davvero si esaurirono le risposte, prese la parola per commentare e fare il punto:
«Dunque, anche voi avete concordato con la convinzione che le leggi sono importanti. Di più, direi: sono fondamentali. Come le fondamenta di una casa. Senza di esse, la società non starebbe insieme, ma 'andrebbe insieme'. Vi è mai capitato di vedere la 'maionese impazzita' in una ciotola? Ecco: così saremmo. Tuttavia, le leggi non sono tutto. Sono indispensabili, ma insufficienti. Perché una comunità sia una comunità, occorre che la comunità voglia esserlo. Che gli uomini che la compongono vogliano essere comunità. E intervengano in ogni momento per difendere il loro 'stare insieme' da chi, con intenzione o anche inconsapevolmente, eventualmente attacchi singole persone o gruppi e, attraverso questi, la loro stessa 'buona convivenza'. Chi si comporta con prepotenza, arroganza, violenza, mancanza di rispetto nei confronti dell'altro deve essere punito dalla legge. Ma prima ancora deve essere 'contenuto', isolato, punito da tutti noi.  Poco o nulla può la legge se manca la 'sanzione sociale'. Ognuno di noi, sempre, è chiamato a intervenire. Chi accetta, o subisce, la violenza, se ne fa complice. E contribuisce a distruggere la società. Spesso dimentichiamo che la società in cui abbiamo avuto in sorte di vivere non è 'gratis' e non arriva a noi dal cielo, graziosamente regalateci dagli dei che lo abitano (se ci crediamo). No, è il prodotto di una 'cura' continua. Nostra. Di uno sforzo quotidiano, praticato, e propiziato forse anche con il favore del cielo, ma qui sulla terra, da noi uomini. Uomini che, come forse sapete, anche secondo una certa etimologia non orientale, ma latina, stanno sulla terra e sono fatti di terra. E tuttavia, nello stesso tempo, aspirano, giustamente, al cielo. E a portare un po' di cielo in terra: anche per far sì che la terra, ma gli uomini in particolare, vivano meglio. Se ci dimentichiamo di 'prenderci' cura del nostro stare insieme, nessuno potrà farlo al posto nostro. E prevarranno disordine, violenza, distruzione. Li Min sa quanto io sia orgoglioso di essere nato e cresciuto in questa parte del mondo, educato ai valori profondi in cui noi orientali crediamo; ma conosce anche la mia predilezione per il 'meticciato' culturale. Qualcuno, in passato, lontano da qui, teorizzò l'homo homini lupus: sostenendo la 'naturalità' della competizione, della sopraffazione, della guerra tra esseri umani. Una convinzione forse non a caso nata e fatta propria (benché anche lì sempre discussa) all'interno del mondo occidentale. Io preferisco una versione caldeggiata con passione da un anonimo saggio che propugna l'homo homini homo: una versione in base alla quale la parte 'buona' dell'umano che è in noi può incontrare l'umano che è nell'altro e spingerlo, se non a diventare fratello, almeno a cooperare per il bene comune. Certo: una suggestione assai difficile da praticare. Ma possibile. Se tutti noi ci impegniamo a praticarla. Anche testimoniando, con le parole, con gli argomenti, con la nonviolenza, 'contro' chi vuole farsi lupus contro di noi o contro il nostro prossimo».

Wu Zhi fece una pausa.
Le sue parole pesavano nell'aria: quasi si vedevano fluttuare, colorate, a caratteri maiuscoli.
Ogni brusio era terminato.
Ma non era più il silenzio, teso e glaciale, dell'inizio. Ora l'atmosfera era calda e parlava di cervelli e di emozioni che stavano elaborando insieme i pensieri e avevano trovato come una magica armonia.

Insegnanti e studenti fissavano il maestro visibilmente appagati per quanto avevano ascoltato.
Eppure erano convinti che ci sarebbe stato un seguito: e già molti, forse, credevano di aver intuito le conclusioni.
Ma Wu Zhi sapeva di avere in serbo un finale spiazzante: che avrebbe potuto apparire teatrale, ma che invece era lo sbocco logico, del tutto sincero, di un tormento doloroso che si portava dentro dall'inizio della giornata.
Anche per questo, avrebbe voluto terminare al più presto: per liberarsene, qualunque fosse stato l'esito.

Il maestro dunque rifocalizzò l'attenzione di tutti sull'episodio della giovane Dan Liang espulsa dalla sala.
«Immagino che voi conosciate le domande retoriche. Come sapete le domande retoriche hanno la risposta implicita nella domanda stessa. Bene. Ora ve ne pongo una. Ma contrariamente alla regola della risposta implicita, stavolta desidero che la risposta sia esplicitata. Desidero che me la diate tutti voi. Insieme. All'unanimità. Dunque, ecco la domanda: come mi sono comportato poco fa con Dan Liang? Sono forse stato corretto? Sono forse stato giusto?».

Tutta la sala ripiombò in un silenzio assoluto: i visi non erano più tesi, il clima era rilassato, ma nessuno osava rispondere.

Wu Zhi si era fatto serio.
«Ora userò un verbo cui non ricorro mai. Ma stavolta l'eccezione è giustificata. Il verbo è 'esigere'. Sì, cari ragazzi, 'esigo' una risposta. Adesso, subito. Da tutti voi. Non me ne vado finché non mi arriverà questa risposta. Vi pare che io mi sia comportato bene mostrandomi prepotente e violento con Dan Liang cacciandola dall'aula senza una ragione?».

Non trascorse un secondo: giunse un no compatto, gridato, liberatorio.

Il maestro lasciò vibrare a lungo la risposta nella sala.
«Il vostro no, così duro, netto, corale, convinto, mi riempie l'animo di speranza. Perché ci saranno tante prossime volte nella vita in cui vi troverete coinvolti in situazioni simili a quella cui avete assistito stamattina. E allora la mia speranza è che non 'assistiate' mai più come stamattina avete fatto. Ma osiate 'intervenire': da soli, in gruppo, nel modo in cui deciderete. Ma comunque, sempre. E che mai più rimarrete zitti. Per difendere voi stessi e chi vi sta accanto e l'essere umano in generale, dalle ingiustizie, dalle violenze e dalle prepotenze di cui troppo spesso continuiamo a essere vittime. Non importa chi sarà colui che commetterà ingiustizia. Dovrete prendere posizione, intervenire, testimoniare il vostro no. Grande, netto: come quello che in coro mi avete gettato addosso, giustamente, poco fa. E se l'ingiustizia vi giungerà da chi ha titoli che lo rendono forte e (pre)potente, sia anche il capo di tutti i capi del mondo, a maggior ragione il vostro no dovrà essere urlato e intransigente. Perché nessuno possa accusarvi di essere forti con i deboli e deboli con i forti.»

Stava per scattare l'applauso, ma Wu Zhi, infastidito, lo fece abortire sul nascere, segnalando con la mano che non amava simili manifestazioni.

Prima di lasciare la scuola aveva un compito urgente da assolvere e lo disse a voce alta ai ragazzi.
«Ora vi prego, cercate Dan Liang e chiedetele di tornare qui in aula per ricevere pubblicamente le mie scuse. Le ho fatto una cosa terribile e le devo chiedere perdono. Inchinandomi a lei, di fronte  a tutti voi. Le spiegherò perché l'ho fatto e spero possa capire: anche se ciò non sminuirà la gravità del mio comportamento. Infatti, se non mi perdonerà, comprenderò il suo rifiuto e mi sarà ancora più chiaro il dolore che le ho provocato. E per me sarà la giusta punizione per averla 'usata', sia pure momentaneamente e al fine nobile di trasmettere un messaggio educativo. Se Dan Liang mi negherà il suo sorriso, che mi auguro pieno di comprensione, questo mi confermerà la giustezza del principio, che oggi per la prima volta ho trasgredito, in cui credo da sempre e che vi invito a scolpire nei vostri cuori insieme al succo della lezione di stamattina: 'nessun fine giustifica i mezzi per ottenerlo'».

*** Massimo Ferrario, La prepotenza e la lezione del maestro Wu Zhi, 2016-2017, per Mixtura. Rielaborazione creativa e originale a partire da uno spunto contenuto in un testo di autore anonimo diffuso in rete.


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