Quando si parla di Nature-deficit disorder si fa riferimento non a un disagio clinicamente classificato, ma a un malessere comunemente riconosciuto: così l’ha chiamato Richard Louv, divulgatore americano ed esperto di psicopedagogia infantile. Il termine è diventato popolare perché descrive una situazione largamente sperimentata: i bambini stanno meglio dove la natura è più presente. Non a caso, anche molte forme patologiche, come le tossicodipendenze, vengono curate meglio in situazioni in cui il rapporto con l’ambiente è più forte.
Il tema è stato finora approfondito, più che dalla psicologia, dalle teorie favorevoli alla Wilderness, o natura incontaminata, molto diffuse nei paesi anglosassoni e in Sudafrica. I teorici della Wilderness, amata da Carl Gustav Jung, fondatore della psicologia analitica, sostengono che l’uomo ha un bisogno vitale del legame con la natura allo stato puro. Sia nei suoi elementi fondamentali (terra, acqua, fuoco, aria), sia nelle sue forme (i boschi, i corsi d’acqua, le praterie, gli animali).
Personalmente, ho osservato che nella formazione della maggior parte dei disagi psichici di oggi è presente un deficit di contatto diretto con il mondo vivente, non costantemente mediato dalla cultura o dalla tecnologia. Come diceva Einstein: «Non tutto ciò che davvero conta può essere contato, e non tutto ciò che può essere contato conta veramente». I disturbi alimentari, tutte le forme di dipendenza, i disturbi di personalità e dell’umore, si aggravano in contesti totalmente lontani dalla natura. Mentre vengono da essa curati, come hanno dimostralo molte esperienze terapeutiche.
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