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mercoledì 23 novembre 2016

#SENZA_TAGLI / Cordate aziendali (Domenico De Masi)

Le aziende predicano la meritocrazia ma praticano le cordate. Ogni nuovo top manager si porta dietro una serie di suoi fidi che occupano le poltrone prima occupate dai fidi del top manager disarcionato. Nominato un top manager, e, esaurita una cordata, affida la felicità alla speranza di un miglioramento che dovrebbe arrivare con la cordata successiva. Nel famoso coro dell’Adelchi, “Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti…” ricordate il Manzoni? il poeta parla di un subalterno popolo medievale che, all’improvviso arrivo di un nuovo esercito, “intende l’orecchio, solleva la testa” e “sogna la fine del duro servir”, sogna una libertà che gli dovrebbe venire non dalla propria ribellione al vecchio padrone, ma dalla generosità dei nuovi conquistatori.

Così oggi, di tanto in tanto, dagli uffici, dai corridoi, dalle mense aziendali, un volgo disperso d’impiegati e manager, percosso da nuovo crescente rumor, intende l’orecchio, solleva la testa e assiste timoroso o speranzoso all’arrivo del nuovo boss.

Una società è democratica quando il popolo sceglie i suoi governanti. Ma le imprese, per loro natura costituzionale, sono gerarchiche, piramidali, autoritarie: i loro capi non vengono eletti dal basso ma vengono nominati dall’alto e, spesso, dal di fuori. Ai dipendenti (persino a quelli di altissimo rango) non resta che prendere atto delle nuove nomine, apprendendole non dall’azienda ma dalle pagine del “Sole 24 Ore” o del “Financial Times”.

Se, dopo alcuni secoli dalla scoperta della democrazia, gli Stati democratici funzionano ancora malissimo, è proprio perché essi, come grandi sfere riempite di piccole piramidi, dentro un involucro egualitario nutrono gruppi ancora gestiti dittatorialmente. Quale fedele ha mai eletto il proprio parroco? quale studente o quale professore ha mai eletto il proprio preside? La partecipazione, sancita per i riti solenni come l’elezione del parlamento o del sindaco, è bandita dalle organizzazioni quotidiane, quelle che davvero contano per la nostra felicità.

Il geniale Alexis de Tocqueville, quando nel 1830 dalla Francia monarchica approdò all’America repubblicana, rimase stupito dalle libertà costituzionali del nuovo mondo ma si accorse subito delle magagne che esse celavano. In quel capolavoro insuperato che è La democrazia in America, egli scrisse: “Credo che la libertà sia meno necessaria nelle grandi che nelle piccole cose, perché è nel particolare che è pericoloso asservire l’uomo. Significa contrariare ogni momento l’individuo, snervarlo, e fargli presente a ogni piè sospinto la sua condizione... Una costituzione che sia repubblicana nel cervello e ultra-monarchica in tutte le altre parti, mi è sempre apparsa un mostro effimero. I vizi dei governanti e l’imbecillità dei governati non tarderebbero a condurla in rovina”.

L’ultra-monarchia delle aziende comporta che, ogni tanto, a ondate, si sparge per i corridoi la voce che il monarca in carica comincia a vacillare. Allora, giù giù per i rami dell’organigramma, tutti quelli che hanno goduto delle sue grazie cominciano a tremare, mentre tutti gli altri, esclusi dalla sua cordata, sollevano le loro teste e, col misero orgoglio d’un tempo che fu, arrotano i coltelli delle loro vendette notturne.

Ogni cambio di guardia al vertice dei grattacieli direzionali provoca terremoti che, prima di assestarsi, proiettano i loro effetti sismici fino ai piani sottostanti dei direttori, a quelli ancora inferiori dei manager e degli impiegati, a quelli infimi dei commessi e degli uscieri.

In alcune stanze cinicamente si brinda ai nuovi padroni, mentre in altre cala il terrore: qualcuno tenta di occultarsi in attesa di oblio e di tempi migliori; qualche altro cerca di cambiare bandiera correndo in aiuto dei vincitori; qualche altro ancora si dimette.

Tutto avviene in modo felpato e silente. Se qualcuno parla ai livelli alti, lo fa concedendo una signorile intervista ad “Affari & Finanze” o a “Forbes”; se qualcuno parla ai livelli bassi, lo fa bisbigliando nei corridoi. Mai nessuno che chieda ai nuovi padroni le credenziali e le competenze; mai nessuno che li affronti di petto, per contrattare il proprio destino o almeno per soccombere a testa alta.

Manager che hanno costruito la loro carriera lavorando sodo per anni, rinunziando alle gioie della famiglia, della cultura e del tempo libero per accumulare una debordante professionalità, accettano supinamente di essere diretti dai nuovi arrivati, assolutamente ignoranti di tutto ciò che si progetta, si produce e si vende nel loro nuovo regno, guadagnato non per meriti specifici ma per fedeltà a un ministro, a un segretario di partito, a una loggia massonica, a una congrega religiosa.

“Tutto sommato – acutamente osserva il profetico Tocqueville – mi pare che l’aristocrazia industriale di oggi è tra le più dure che siano mai esistite… È da questa porta che la democrazia deve temere un ritorno all’ineguaglianza sociale”.

*** Domenico DE MASI, sociologo, Cordate aziendali, 'linkedin.com/pulse', 21 novembre 2016, qui


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