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lunedì 7 novembre 2016

#LIBRI PREZIOSI / "La repubblica dei brocchi", di Sergio Rizzo (recensione di M. Ferrario)

Sergio RIZZO, "La repubblica dei brocchi
Il declino della classe dirigente italiana"
Feltrinelli, 2016
pagine 268, € 17,00, ebook € 9,99

Forse brocchi, certo bravissimi. In furbizia
Un fuoco d'artificio, quest'ultimo libro di Sergio Rizzo. 
Ma solo per i grappoli incessanti di casi, minuziosamente registrati e documentati, che sembrano frastornare e non finire mai. Per il resto, l'effetto di gioioso divertimento è del tutto assente: alle girandole di luci seguite con gli occhi in alto a guardare il cielo festoso e scoppiettante, fa infatti qui da contraltare, ad ogni pagina girata, un sentimento sempre più cupo e arrabbiato, che si traduce in una faccia via via sempre più 'ingrugnata', ben lontana da quella, ammirata, che assiste ai botti.

Sergio Rizzo, con la sua esperienza collaudata di indagatore puntuale e feroce delle malefatte della società italiana (spesso in accoppiata con il collega Gian Antonio Stella, col quale 'inventò', nel 2007, il termine 'casta', per definire un fenomeno finora mai scalfito) ha raccolto una quantità incredibile di cartucce da sparare e qui, solo contro tutto, ha l'imbarazzo della mira. La mappa, fitta e spesso intrecciata, di nomi e cognomi, è lì davanti ed è a 360 gradi: c'è solo da renderla viva, illustrandola nella sua naturale 'mostruosità'. E colpire. L'autore sa fare con stile, anche leggero e ironico, e con assoluta precisione ambedue le cose.

I nomi presi a segno sono quelli che compongono, come dice il titolo del libro, la nostra 'repubblica dei brocchi'. E ce n'è per tutti: politici, burocrati, manager, sindacalisti, magistrati, avvocati, giornalisti. 
Si può discutere sull'appropriatezza del termine 'brocchi': il sostantivo evoca infatti un'incapacità, addirittura quasi una menomazione congenita, che in realtà parrebbe mal conciliarsi con il grande successo, di soldi potere status, raggiunto da una popolazione tanto ampia, che tuttora continua a causare un impatto così devastante sui valori e i comportamenti di una intera società. Forse una eccezionale furbizia, unita a una intelligenza, anche sociale, scaltramente piegata agli interessi egoistici personali, è la qualità diffusa che meglio restituisce la ragione di un simile pervertimento generale. 
Tuttavia, al di là delle definizioni, è indubbio che anche chi ancora non ha staccato la spina, disgustato per ciò che vede, e caparbiamente cerca di seguire con regolarità le vicende di malapolitica e malcostume del nostro Paese non può restare impassibile di fronte all'affresco prodotto da questo saggio: un conto, infatti, è leggere giorno per giorno, in modo necessariamente frammentato e disconnesso, la cronaca, nera e progressiva, di questo degrado, e un conto è trovarsi squadernato davanti, in tutta la sua drammatica evidenza, impossibile da ignorare, lo scenario generale, articolato e complesso, in cui siamo precipitati tutti.

Certo, le ultime pagine, forse anche un po' ritualmente, fanno intravvedere qualche lumicino di speranza, se solo mettessimo in campo alcuni meccanismi minimi di salvataggio, che qualcuno peraltro ha tentato di individuare. 
Ma l'analisi delle prime 250 pagine, impietosa quanto tristemente realistica, ci fa arrivare alla fine quasi del tutto 'sfiniti' e ci dice anche che la soglia per quel colpo di reni che ogni tanto vagheggiamo, capace di riportarci in posizione finalmente eretta, se non l'abbiamo già superata, è pericolosamente prossima. Oltre quel limite, nessun colpo di reni ci può rimettere in piedi e il rischio, se mai, quand'anche finalmente decidessino di provarci, è di restare 'incriccati', con la schiena irrimediabilmente bloccata. 
Dunque urge un'azione. Se la consapevolezza quasi mai risolve, ma sempre aiuta, perché può fungere da stimolo a intervenire, anche una ricognizione tanto meticolosa e allarmante, tra l'altro non unica nel panorama dei saggi di denuncia e quindi in felice sinergia con altre analoghe inchieste, è benvenuta.

*** Massimo Ferrario, per Mixtura 

«
Il deperimento delle nostre élite è generale. Niente e nessuno si è salvato dal lento processo di decomposizione. Non la politica. Né le grandi burocrazie pubbliche. Ma neppure magistrati, manager pubblici e privati, professori. Non ha risparmiato il sindacato, la finanza, i professionisti di ogni ordine e grado. Né poteva risparmiare la stampa e l’informazione. 
Comincia quando scuola e università smettono di essere non soltanto il fondamento dello sviluppo sociale, ma anche la base per la formazione delle classi dirigenti. Prosegue con i partiti ridotti spesso a propaggini di comitati d’affari. Con i politici sempre più concentrati sul proprio interesse personale anziché su quello della collettività. Con l’ignoranza che dilaga, perché essere preparati conta meno che essere furbi. Con il trionfo del conflitto d’interessi. Con i privilegi che allagano gli strati sociali più elevati e le corporazioni più potenti, trasformandoci nel paese delle caste. Con la corruzione tollerata come forma endemica di una società febbricitante. Con l’affermazione di una gerontocrazia narcisista e autoreferenziale, per questo incapace di trasmettere il potere se non ai mediocri. Con la mancanza di prospettive per i giovani migliori, che scappano all’estero perché qui fanno carriera solo le schiappe. Con la speculazione edilizia e il disastro dell’ambiente. Con la burocrazia asservita alla politica e al tempo stesso arrogante. Con la morte delle grandi scuole di classe dirigente, dall’Iri alla Banca d’Italia. Con gli imprenditori che fanno strada grazie alle relazioni, anziché alle idee. Con le privatizzazioni sbagliate, che hanno trasferito le rendite di posizione dallo stato ai salotti. 
Ma soprattutto con la fine del sogno. Eravamo un paese che aveva fame di crescere: adesso siamo la Repubblica dei brocchi. (Sergio Rizzo, "La repubblica dei brocchi", Feltrinelli, 2016)

Perché spostare il confine dell’etica alla condanna definitiva di un tribunale elimina in un sol colpo i principi fondanti della morale sanciti dalla Costituzione. Che all’articolo 54 recita: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Ben sapendo, i nostri padri costituenti autori di quella prescrizione fondamentale, che esistono pratiche non penalmente rilevanti ma non per questo meno moralmente disdicevoli, dalle quali chi ha responsabilità politiche, burocratiche o anche imprenditoriali ha l’obbligo di tenersi alla larga. Servano da esempio le regole che vietano a funzionari e responsabili istituzionali di accettare regali di valore introdotte da quasi tutti i governi dei paesi sviluppati. 
Siccome però anche il terzo grado di giudizio dev’essere stato ritenuto un metro troppo restrittivo per qualificare la disciplina e l’onore che sono tenuti a rispettare i titolari di funzioni pubbliche, un bel giorno spunta una legge anticorruzione che vieta l’assunzione di cariche elettive ai destinatari di condanne definitive per una serie di reati, fra i quali quelli contro il patrimonio. Come corruzione, concussione, peculato… Il divieto però non vale proprio per tutti i condannati: ma solo per quelli che si sono beccati una pena superiore a due anni. La disciplina e l’onore? Che sottigliezze, sono cose del passato… Come la vergogna. (Sergio Rizzo, "La repubblica dei brocchi", Feltrinelli, 2016)

“Piuttosto che niente è meglio piuttosto,” dice un proverbio di saggezza padana. Però non funziona sempre. Siamo proprio sicuri, per esempio, che una legge fatta male sia preferibile a nessuna legge? Prendiamo la cosiddetta “Severino”. Posto che in nessun paese normale sarebbe necessaria una legge dello stato per stabilire l’ovvio, cioè che un corrotto non può presentarsi alle elezioni, per com’è stato scritto, e peggio ancora applicato con i vari decreti, quel provvedimento ha aumentato la confusione, dando la stura a ricorsi al Tar che hanno regolarmente salvato dalla decadenza amministratori locali vittime di condanne non definitive. Il fatto è che se una faccenda delicata quanto il rapporto fra politica e morale finisce in “Gazzetta ufficiale”, si va incontro a tanti rischi. Incluso quello che poi sia un giudice del Tar a stabilire il confine della decenza. Il che, in una società laica e moderna, non dovrebbe mai accadere.
Soprattutto, però, le norme anticorruzione hanno paradossalmente certificato che in certi casi, se c’è di mezzo la politica, la legge non è uguale per tutti. Probabilmente non era loro intenzione, ma l’esito è stato questo. Utilizzarle poi per fissare le regole relative alla revoca dei vitalizi dei condannati ha rafforzato ancora di più la sensazione, niente affatto peregrina, che il Palazzo sia popolato da intoccabili. Senza eccezioni. (Sergio Rizzo, "La repubblica dei brocchi", Feltrinelli, 2016)
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In Mixtura una mia precedente recensione al libro di Sergio Rizzo, "Il facilitatore", Feltrinelli, 2015, qui

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