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venerdì 8 luglio 2016

#LIBRI PIACIUTI / Yeruldelgger, morte nella steppa, di Ian Manook (recensione di M. Ferrario)

Ian MANOOK, "Yeruldelgger. Morte nella steppa"
2013, Fazi, 2016
traduzione di Maurizio Ferrara
pagine 524, € 16,50, ebook € 11,99 

Un nuovo commissario di polizia in una Mongolia affascinante
Innanzitutto: una trama che gronda di fatti e personaggi. Complessa, anche macchinosa, ma sempre ben districata: capace di far crescere il puzzle centellinando tensione e attesa attraverso la continua messa in gioco di tante tessere che all'inizio sembrano confondere e appartenere a vicende scollegate, ma che poco per volta assumono il loro posto nel quadro di senso generale. 
Poi: un commissario di polizia inconsueto, sia per le origini culturali e il nome mongolo quasi impronunciabile (Yeruldelgger Khaltar Guichyguinnkhen), che per il carattere ambivalente (roccioso e sensibile, violento e dolce, pietoso e spietato). Un uomo che attrae e seduce, perché affonda con orgoglio piedi e anima nelle tradizioni della steppa in cui è cresciuto e che, distrutto negli affetti più cari (la morte della piccola figlia, la conseguente follia della moglie che l'ha abbandonato, la primogenita adolescente che gli attribuisce ogni colpa e per questo l'ha rifiutato), ostinatamente cerca di dipanare i fili di una matassa sempre più aggrovigliata, nella quale si agitano e mescolano poliziotti corrotti, gruppuscoli di neonazisti, delinquenti avidi di soldi e di potere, politici cinesi e coreani poco raccomandabili, monaci guerrieri di tradizione buddista, un suocero dedito ai grandi affari, che non nasconde la sua natura quanto meno prepotente, e un ragazzino dal coraggio intelligente e astuto, che per un po' esercita la funzione essenziale di mascotte brillante degli investigatori.
Quindi: le donne, giovani e vecchie. Acculturate (come la giovane medico anatomopatologa e la poliziotta, ambedue teneramente legate al commissario e fondamentali per il contributo dato alla soluzione del caso) o pressoché analfabete e in balia della violenza degli uomini: le une e le altre, comunque, portatrici convinte  e fiere delle usanze e dei valori del paese di Gengis Khan.
Infine: le grandi e suggestive descrizioni, impareggiabili: che restituiscono con maestria la natura selvaggia del paesaggio mongolo e i suoi tratti magici di spiritualità che viene dal passato.

Ian Manook, pseudonimo di Patrick Manoukian, è scrittore di origine armena: la serie dei nuovi noir mongoli che hanno per protagonista il commissario Yeruldelgger ha avuto grande successo in Francia, conquistando lettori e premi letterari: in Italia, questo è il primo volume tradotto e c'è da credere che gli altri seguiranno a breve. 
L'ambientazione naturale, tanto efficace e precisa, è senz'altro frutto dei molti viaggi condotti da Manook in giro per il mondo e, in particolare, in Asia Orientale. Ed è appunto questa particolare scenografia che aggiunge alla potenza della vicenda, da cui il lettore è catturato per le oltre cinquecento pagine, il fascino non indifferente del libro: il contesto geografico è davvero unico, ed eccezionale è l'abilità dello scrittore, non solo nel fotografare il panorama naturale della Mongolia, ma anche nell'abbozzare l'atmosfera storica e culturale del Paese, rievocando alcuni suoi usi e costumi più profondi.

*** Massimo Ferrario, per Mixtura

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Quando il poliziotto del distretto guidò la macchina sobbalzando fino alla pista, Yeruldelgger scorse nello specchietto retrovisore la giovane donna che benediva la loro strada. Teneva all’altezza degli occhi una piccola ciotola, che lui sapeva piena del latte dell’ultima mungitura, e facendo un gesto pio e rispettoso ne aspergeva con i polpastrelli i quattro punti cardinali. Nonostante il cadaverino raggomitolato nel bagagliaio e i corpi mutilati dei tre cinesi che lo aspettavano a Ulan Bator, Yeruldelgger provò una specie di felicità al pensiero di appartenere a quel paese dove i viaggiatori erano benedetti ai quattro venti e dove le bare erano chiamate con lo stesso nome delle culle. Una specie di felicità... (Ian Manook, "Yeruldelgger. Morte nella steppa", 2013, Fazi, 2016)

Si svegliò il mattino seguente senza che nessuno l’avesse chiamata. Nell’opaca luce mattutina, la stanza le parve ancora più misera. Si diresse alla finestra e sollevò la tendina grigia per dare un’occhiata all’esterno. A parte il nuovo centro di Ulan Bator e la perfezione infinita delle steppe e delle montagne, Oyun si chiedeva spesso perché la sua bella Mongolia sembrasse così scalcinata. Ovunque, quando attraversava le periferie e i villaggi, provava una strana impressione di abbandono rassegnato. Come se la vita quotidiana della gente, in quel paese immenso e magnifico, si restringesse in un presente rattrappito con l’unica ambizione di sopravvivere alla giornata. Non sapeva dire se l’interno del paese fosse un cantiere in stato di abbandono, o una costruzione in disfacimento. Conservava sempre quel sentimento strano di un passato e di un futuro senza vita che lasciavano i poveri in un presente senza ambizione, fatto di piccole speranze quotidiane. O di piccole disperazioni... (Ian Manook, "Yeruldelgger. Morte nella steppa", 2013, Fazi, 2016)

Preparare le marmotte, infilare nelle loro pance aperte i sassi bollenti, ricucirle per far cuocere la carne dall’interno e, nello stesso tempo, avvicinarla a un fuoco di legna per farla cuocere dall’esterno. Da bambino, aveva guardato a lungo gli adulti compiere quei gesti, poi li aveva imparati, scottandosi le dita per mancanza di abilità e le labbra per ingordigia. Equilibrare i due calori, evitare che la cottura all’interno sprigionasse troppo calore e vapore, lacerasse la cucitura o facesse scoppiare la marmotta. Poi toglierla dal fuoco, aprirla con rapidi gesti delle dita, afferrare i sassi coperti di grasso bollente e passarli velocemente da un palmo all’altro affinché il calore e il grasso dessero forza e vigore. E infine tagliare la bestiola e addentare la sua carne tenera e succosa che ancora fumava... 
Certi stranieri sostenevano che il boodog avesse il sapore dell’anitra selvatica. Yeruldelgger non era d’accordo. Il boodog era il boodog, un piatto mongolo impareggiabile, il cui sapore veniva tanto dalla caccia al piccolo animale della steppa, dalla sua preparazione tra amici, dalla scelta di ogni sasso o dalle tradizioni della sua cottura, quanto dal grasso conservato (Ian Manook, "Yeruldelgger. Morte nella steppa", 2013, Fazi, 2016)

A Yeruldelgger piacevano i fiumi, le acque lisce come marmi neri, o schiumeggianti e percorse da mulinelli nella corrente tra i ciottoli bianchi. Gli piacevano i trampolieri pescatori, immobili e dal becco appuntito sulle sponde coperte di muschio, e gli uccelli radenti come frecce verdi e azzurre che sfioravano l’onda argentata. Le cerve sorprese, frementi, che di colpo saltavano in preda al panico su esigue macchie di vegetazione. L’aquila ad ali spiegate, sospesa alla punta delle sue piume contro il vento caldo, con il becco pronto... 
Si fermò più volte sul ciglio dissestato della pista di terra gialla. Per ammirare un rapace immobile e paziente che spiava una trota nella corrente lieve di un fiume. Per sbirciare il gioco tutto scatti e fischi delle marmotte tra le zolle di terra. Per aspettare il gesto penetrante dell’airone e guardarlo mentre faceva scivolare il pesce argentato nel lungo collo piumato teso verso il cielo. (Ian Manook, "Yeruldelgger. Morte nella steppa", 2013, Fazi, 2016)
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