Ta-Nehisi COATES, "Tra me e il mondo"
Traduzione di Chiara Stangalino
2015, Codice Edizioni, 2016
pagine 207, € 16,00, ebook € 4,99
Colpisce duro
Una lettera al figlio quindicenne: affettuosa, appassionata, protettiva.
E' l'occasione per ricapitolare la propria vita svelando se stessi senza infingimenti e senza sconti, ma anche e soprattutto per aggredire, con la durezza che è supportata dai fatti, l'intera società americana in cui i neri sono costretti a vivere, minacciati e uccisi solo perché il loro corpo non è dello stesso colore di «quelli che si credono bianchi». Nello stesso tempo è un modo, questo scelto dall'autore, per rendere consapevole il figlio del rischio quotidiano che corre per la pelle che ha avuto in eredità: un pericolo che ha origine nelle fondamenta stesse della nazione americana, costruita sull'orrore della schiavitù.
E' una lettera che non dà tregua: commuove, strattona, colpisce duro.
Lo scrittore, Ta-Nehisi Coates, un nero americano considerato oggi tra i 100 intellettuali più influenti degli Stati Uniti, mostra un'abilità di scavo e una efficacia espressiva davvero stupefacenti e la sua denuncia va al cuore di chi legge.
Sono ricordati episodi, recenti e lontani, di una violenza razzista diffusa e connaturata nella società americana, anche quando si esprime attraverso un potere istituzionale ingiudicabile e sempre giustificato. Ma soprattutto erompe qui, quasi ossessivo, il vissuto personale dell'autore, solidificatosi nell'infanzia e mai superato neppure con l'età adulta, della paura della 'perdita del proprio corpo' in quanto nero.
Sembrerebbe impossibile riuscire a comunicare un vissuto tanto specifico a chi non ha abitato l'America degli anni in cui lo scrittore è cresciuto e per giunta ha la pelle bianca di chi non ha mai dovuto sperimentare dentro di sé il terrore della violenza razzista, ma Coates ci riesce in modo mirabile, alternando emozione e ragionamento, con un linguaggio potente, che sa essere pacato e duro insieme, tagliente, rigorosamente accusatorio, spesso esplosivo, sempre profondamente umano.
Un libro che può apparirci lontano e che invece ci è sempre più vicino: se solo, ogni tanto, osassimo riflettere sulla violenza che è negli esseri umani che tutti siamo, abbandonando l'ottica, comoda e già di per sé violenta, dei 'vincenti' e provando, con un minimo di sforzo empatico, a guardare il mondo dalla parte dei 'perdenti'.
I quali spesso hanno perso perché noi li abbiamo 'messi sotto'. E così continuiamo.
I quali spesso hanno perso perché noi li abbiamo 'messi sotto'. E così continuiamo.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
«
Forse c’è stato, in qualche momento della storia, un grande potere la cui affermazione è stata esente dallo sfruttamento violento di altri corpi umani. Se c’è stato, io non l’ho ancora trovato. Ma la banalità della violenza non può scusare l’America, perché l’America non fa proclama di alcuna banalità. L’America si crede eccezionale, la più grande e nobile delle nazioni mai esistita, un campione solitario che si erge tra la bianca città della democrazia e i terroristi, i despoti, i barbari e gli altri nemici della civiltà. Non si può sostenere di essere supereroi ma poi chiedere venia per i propri errori umani. Ti invito a prendere sul serio queste dichiarazioni sulla straordinarietà dell’America, in altre parole ti chiedo di valutare il nostro Paese secondo i più alti standard di moralità. È difficile, perché tutto intorno a noi esiste un apparato che ci spinge ad accettare l’innocenza dell’America come un fatto assodato, e a non fare troppe domande. Ed è così facile distogliere lo sguardo, convivere con i frutti della nostra storia e ignorare il male immenso commesso nel nome di tutti noi. Ma tu e io non abbiamo mai davvero goduto di questo lusso. Penso che tu lo sappia bene. (Ta-Nehisi Coates, Tra me e il mondo, 2015, Codice Edizioni, 2016)
Il mio compito è trasmettere a te ciò che so del mio unico e particolare cammino, e nello stesso tempo lasciare che tu percorra il tuo. Per te non è più possibile essere nero nel modo in cui lo sono io, proprio come per me è stato diverso essere nero rispetto a mio nonno. E tuttavia credo fermamente che persino per un ragazzo cosmopolita come te ci sia qualcosa da cercare lì, una base, anche in questi tempi moderni, un porto sicuro nella tempesta americana. (Ta-Nehisi Coates, Tra me e il mondo, 2015, Codice Edizioni, 2016)
Ecco quello che vorrei che tu sapessi. In America la distruzione del corpo nero è una tradizione, un retaggio culturale. La schiavitù non è stata soltanto l’asettica presa in prestito di forza lavoro: non è così facile convincere un essere umano a impegnare il proprio corpo in qualcosa che va contro ogni suo interesse più elementare. Per questo la schiavitù deve necessariamente prevedere la collera e le torture casuali, teste spaccate e cervelli che si spengono nell’acqua del fiume quando il corpo cerca di fuggire. Dev’essere uno stupro così sistematico da diventare una sorta di automatismo su scala industriale. Non esiste un modo più edificante per dirlo. Non conosco inni di lode e neppure i vecchi spiritual degli schiavi. Lo spirito e l’anima sono il corpo e il cervello, che sono distruttibili, e proprio per questo così preziosi. E l’anima non è riuscita a fuggire. Lo spirito non ha saputo librarsi sulle ali del gospel. L’anima era il corpo che nutriva il tabacco, lo spirito era il sangue che innaffiava il cotone, e insieme diedero vita ai primi frutti del giardino d’America. Ci si garantiva quei frutti picchiando i bambini con i ceppi della legna da ardere, o con ferri arroventati mentre la loro pelle si staccava accartocciandosi come gli involucri delle pannocchie.
Dovevano essere sangue e unghie conficcate nella lingua e orecchie mozzate. «Una disubbidienza», scriveva una padrona del Sud, «pigrizia, scontrosità, sciatteria: tirate fuori la frusta». Si dovevano punire a bastonate gli sguatteri nelle cucine per il crimine di non aver mescolato di buona lena il burro. E qualche donna andava «rimessa in riga […] con almeno trenta frustate al sabato, e altrettante al martedì». Non si poteva che ricorrere a fruste da cavallo, pinze, attizzatoi, seghetti, pietre, fermacarte o qualsiasi altra cosa capitasse a tiro per spezzare il corpo nero, la famiglia nera, la comunità nera, la nazione nera. I corpi venivano separati in greggi, e marchiati per sicurezza, una sorta di polizza di assicurazione. E i corpi erano un bene cui molti aspiravano, rappresentavano una rendita cospicua, come i territori degli indiani, un’ambizione paragonabile a quella di possedere una veranda, una bella moglie, o una casa delle vacanze in montagna. Per gli uomini che sentivano il bisogno di credersi bianchi, i corpi erano la chiave d’accesso a un circolo esclusivo, e il diritto di spezzare quei corpi segno di civiltà. «Il vero grande discrimine all’interno della società non è quello tra i ricchi e i poveri, bensì tra i bianchi e i neri», dichiarò John C. Calhoun, senatore del South Carolina. «I primi, i ricchi tanto quanto i poveri, rientrano nella classe superiore, e vengono rispettati e trattati come uguali». (Ta-Nehisi Coates, Tra me e il mondo, 2015, Codice Edizioni, 2016)
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