“Mio figlio diciottenne l’altra sera doveva andare a una festa di amici un po’ più formale del solito. Per la prima volta, quindi, voleva mettersi la cravatta. Non c’è problema gli dico io, vieni qui che ti insegno a fare il nodo. Lui si mette a ridere e sai cosa mi risponde? Ma no dai, papà, vado a vedere su YouTube, lì sono più aggiornati”.
Il padre che fa questo racconto non è un attempato nonnino lontanissimo dal mondo dei giovani, è un brillante 45enne direttore di una società di consulenza sulle risorse umane. “Lo vedo nelle aziende”, spiega, “i giovani spesso non si fidano dell’esperienza degli anziani, per loro la comunicazione è solo visiva, mediata dallo schermo di uno smartphone”.
È questo il problema (e non il solo) della compresenza oggi in azienda di quattro generazioni, che diventeranno cinque nel 2030 quando arriverà anche la Generazione α dei nati dopo il 2010. Si parla cioè troppo di tutoraggio, di reverse mentoring, di collaborazione virtuosa giovani-anziani: tu mi trasferisci la tua esperienza e io ti insegno l’uso delle tecnologie. Sono formule, sono pannicelli che spesso neanche riscaldano il clima aziendale: se c’è sfiducia reciproca, il conflitto è l’esito. (...)
*** Enzo RIBONI, giornalista, saggista, Ci sono davvero troppe generazioni in azienda?, 'senzafiltro', 27 aprile 2016
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