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sabato 5 marzo 2016

#LIBRI PIACIUTI / "Di rabbia e di vento", di Alessandro Robecchi (recensione di M. Ferrario)

Alessandro ROBECCHI, "Di rabbia e di vento", Sellerio, 2016
pagine 407, € 15,00, ebook € 9,99

Trama avvincente, stile 'unico'
Non c'è due senza tre. 
Qualche volta, riferito a fatti che debbono ancora accadere, il proverbio suona minaccia (pensate alla successione di taluni protagonisti politici italiani: quando un secondo è peggio del primo, e talvolta è tutto dire, figuriamoci il prossimo). 
Ma in questo caso l'avverarsi dell'adagio della nonna è una fortuna, almeno per chi, più che un cittadino che dovrebbe partecipare ad una democrazia, è solo chiamato a svolgere la parte comoda di lettore di una storia, avvincente, di fantasia. E francamente c'era da sperarci che il due fosse un traguardo provvisorio: il successo, indubbio, di vendite e di critica, incontrato da Alessandro Robecchi per i due precedenti romanzi (Questa non è una canzone d'amore, 2014 e Dove sei stanotte, 2015), faceva presagire che l'autore ci avrebbe riprovato. 
E viene subito voglia di credere che il tre, per quanto sia ritenuto dagli addetti ai lavori un numero sacro, dunque perfetto, possa venire prossimamente reso imperfetto e superato: del resto Robecchi ha la stoffa anche per rompere la sacralità della numerologia e proseguire la numerazione, indefinitamente, senza cadute di tono.

Sì, chi non conosce Alessandro Robecchi come scrittore (ma non chi lo segue come giornalista e ammira la sua abilità quasi da giocoliere nel tenere accesa l'attenzione, su quotidiani e riviste e attorno a temi del momento, con l'ironia e lo sfottò sempre originali) rimane certo sorpreso: dalle sue trame ottimamente incastrate e, forse soprattutto, dallo stile, che saltella tra le pagine con un'effervescenza mai stanca, salvo poi quietarsi, nei momenti 'giusti', in una prosa che sa essere pure 'toccante', al punto da aspirare, quasi, alla vena poetica. 

Ma chi ha già scoperto il Robecchi scrittore e ha letto le storie precedenti sa di andare sul sicuro: si adagia nella poltrona e si ritrova a suo agio. Magari non si lascia coccolare dall'atmosfera del salotto, la poltrona avvolgente e la luce soffusa, perché la vicenda difficilmente rilassa. Tuttavia, ad esempio, ha imparato a misurare e apprezzare l'intelligenza e la sensibilità umana, problematica e contraddittoria, del protagonista, Carlo Monterossi. Che continua ad essere in crisi con il suo mestiere di autore televisivo: insiste a curare un programma che l'ha reso celebre, che sfonda l'audience e che lo riempie di soldi, ma non sopporta più che il concentrato di trash del trash che lui stesso ha costruito continui a insozzargli l'anima, deprimendone l'esistenza e ogni volta spingendolo a dare finalmente una soluzione al suo piccolo e personale 'che fare' nella vita (ma chissà, proprio stavolta potrebbe essere la volta buona). 
E allora, forse perché anche inconsapevolmente è alla ricerca di un diversivo che compensi il disagio da 'sporco intellettuale' e un po' perché il destino l'ha preso di mira, si ritrova a improvvisarsi detective autodidatta dentro vicende complicate e misteriose, forse all'inizio più grandi di lui ma che alla fine si rivelano tutto sommato a sua misura. Perché l'improvvisazione si dimostra, alla prova dei fatti, assai meno dilettantesca di quanto si possa pensare. 
E pure in questa vicenda, aiutato da tanti personaggi che gli fanno corona, Carlo Monterossi riuscirà a insegnare qualcosa a certi funzionari di polizia navigati. Così non solo contribuirà a individuare la soluzione, ma ce la farà anche a placare la 'rabbia' che lo perseguita dalla prima pagina (e che in parte dà il titolo al libro), restituendo un po' di giustizia a chi pare essere condannato dal destino ad una vita offesa.

Se non lo avete capito sono un fan (accesissimo, benché solo virtuale) di Alessandro Robecchi: ma quando capitano bei libri, capaci di 'prenderti' per l'azione descritta e ancor più per la scrittura sfavillante e davvero 'singolare', bisogna avere il coraggio di dirlo.
Tanto non sono in conflitto di interesse: lui non è un parente e io non ho royalties.

*** Massimo Ferrario, per Mixtura
«
Quest’uomo, si dice ora Monterossi, è il concentrato di tutto ciò che bisogna odiare: il cinismo, il potere, l’elegante, momentaneo understatement di chi è potente davvero. E al tempo stesso prova una strana attrazione, un fascino, come quando si vede lo squalo bianco che mostra i denti. Solo che Luca Calleri i denti li mostra per sorridere charmant. 
«Faccia lei, Monterossi, è lei il genio, Flora De Pisis parla di lei come di un portento». 
Ecco, ci mancava la diva Flora, a tessere le sue lodi, il peggio del nazional-popolare che la storia ricordi, e dire che Carlo mette nel conto anche la fiera della polenta taragna di Zogno e miss maglietta bagnata. 
Quanto a lui, al portento, si limita a mezze frasi e piccoli contrappunti, il minimo sindacale, si comporta da artista: se quello è tanto scemo da crederci, si dice, agevoliamo l’arrivo dell’ambulanza. 
Lo salva la bella Cristina che raggiunge alle spalle il suo capo con la leggerezza di un sospiro. Sorride come per scusarsi, mostrando più denti dei master che le ha pagato papà e sussurra: 
«Il sottosegretario è arrivato, dottore... la aspetta nella sala riservata». 
Così Luca Calleri si alza, morbido come un maestro di tennis che fa strage di allieve, e stringe la mano a Carlo, ora in piedi anche lui. 
«Mi ha fatto un immenso piacere, dottor Monterossi. Come si dice... sa dove trovarmi... e niente prudenze commerciali, niente autocensure... inventi, crei, vada controcorrente! Mi stupisca! Di più... Mi scandalizzi!». 
Ovvio che mente. Il sottotesto dice chiaro e tondo: se non è una cosa che fa far soldi ci penseranno i miei a darle un calcio nel culo. 
Poi guarda per la prima volta l’orologio, senza guardarlo davvero. 
«Devo andare. Immagino avrà impegni anche lei... i miei sono la mia croce, vede... un sottosegretario!». 
Lo dice col tono paziente di un latifondista che allarga le braccia e si duole di dover incontrare i mezzadri, ogni tanto. 
Carlo non abbocca: 
«Pensavo di fermarmi al bar, e poi subito a casa... sa, devo creare...». 
Quello non coglie il sarcasmo, o forse lo coglie e non gliene frega niente. 
«Le consiglio uno speciale rum della Guadalupa, allora... ho insistito perché se lo procurassero anche qui... lo assaggi... mio ospite, naturalmente... ci tengo». (Alessandro Robecchi, "Di rabbia e di vento", Sellerio, 2016)

E così, quando risale in macchina e accende il motore, si chiede se la rabbia che prova per la povera Anna non venga anche da lì, dalla rabbia per se stesso, per quello che è diventato. Ancora le parole di Katia Sironi: «È la tivù, Carlo, non è la vita vera»... ma intanto, la sua, che cazzo di vita vera è? 
Senza contare María che «torno» e non torna per niente. 
Ma poi, mentre guida e sente la sua musica, mentre schiaccia piano l’acceleratore e gira un poco il volante in compagnia del suo Dylan gracchiante e risentito pensa che no, non è così, sarebbe troppo facile. E che anzi, per una volta è proprio il contrario. Che la sua rabbia e il suo odio, quando ci sono stati, riguardavano lui, chi colpiva lui, chi intristiva, o feriva, o derubava lui. Che persino di fronte a un lutto, o a una disgrazia, lui, Carlo Monterossi, dedicava pietà a se stesso più che al resto. 
Se ti muore il gatto sei tu il poverino, che ti è morto il gatto, e il gatto, in fondo, cazzi suoi. 
Ma questa volta invece, si dice Carlo, è tutto diverso. (Alessandro Robecchi, "Di rabbia e di vento", Sellerio, 2016)

«Ma Tarcisio! Ma cosa portiamo?». «Come cosa portiamo?». 
«Ma non si può mica andare a casa di quel signore lì, quel Monterossi, a mani vuote!». 
«Non portiamo niente». 
«Ma che figura, Tarcisio!». 
«Me l’ha detto lui, me l’ha vietato espressamente, mi ha detto: Ghezzi, non porti niente che mi offendo». 
Lei non ci crede nemmeno per un secondo, ma si adegua... che poi a uno così, cosa vuoi portare? Allora è sparita per un paio d’ore al grido di battaglia, una specie di danza rituale, che rimbombava per casa: 
«Almeno il parrucchiere!». 
E finalmente, alle otto e venticinque, si è presentata in salotto. 
«Come sto?». 
E lui che non ne poteva più non si è voltato nemmeno e ha detto: 
«Bene». 
«Ma Tarcisio! Non mi hai neanche guardato!». 
«Ma se ti vedo da vent’anni! Su, su, andiamo che là non si posteggia». (Alessandro Robecchi, "Di rabbia e di vento", Sellerio, 2016)

Quando è arrivato a destinazione ha fatto un paio di giri dell’isolato perché non c’erano parcheggi, ovvio, e poi si è iscritto alla maggioranza silenziosa: seconda fila e doppie frecce. Abbiamo nutrito il pianeta, siamo un modello per il paese, su, lasciateci posteggiare come cazzo ci pare.(Alessandro Robecchi, "Di rabbia e di vento", Sellerio, 2016)
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In Mixtura la recensione al libro precedente di Alessandro Robecchi, Dove sei stanotte, 2015, qui
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