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sabato 31 ottobre 2015

#FAVOLE & RACCONTI / Il bicchiere e lo stress (M. Ferrario)

Anche questa volta Sommo Professore era riuscito a strappare l'incontro con Grande Vecchio grazie all'intercessione di Piccolo Uomo.

Lui e i suoi trenta allievi, top manager delle maggiori imprese del paese, erano rimasti particolarmente colpiti, l'anno precedente, dalla lezione che Grande Vecchio aveva dato loro sul tema del 'tempo': erano bastati un vaso e delle pietre (*), e così, con la semplicità che spesso è il massimo della saggezza se non degrada in semplicismo, avevano colto il messaggio profondo.

Stavolta volevano interrogare Grande Vecchio sulla questione dello ‘stress’.

Era un argomento di moda: e come sempre, quando i temi diventano moda, pullulano corsi e si improvvisano esperti, che magari hanno letto soltanto qualche libro, per giunta spesso senza averlo neppure capito molto. 

Era proprio questo che Sommo Professore voleva evitare.
E perciò aveva proposto ai suoi allievi di tornare sulla Montagna Più Alta, dove d'estate si ritirava Grande Vecchio insieme con il suo giovane compagno, Piccolo Uomo: era un legame dolce e indissolubile, come quello tra un nonno e un nipotino, di cui ormai tutti giù in città erano al corrente. E tutti sapevano che se si voleva distogliere Grande Vecchio dalle sue meditazioni tra i monti e i boschi, per qualche scambio di pensieri con estranei, bisognava chiedere aiuto a Piccolo Uomo.

Da Grande Vecchio, Sommo Professore e i suoi allievi si aspettavano parole sincere e illuminanti: era già accaduto, erano certi che sarebbe accaduto di nuovo. 
I manager avevano accettato con entusiasmo anche la camminata impegnativa che li avrebbe occupati nel fine settimana: in fondo, anch’essa poteva costituire un modo per combattere lo stress accumulato durante i mesi di lavoro. Ricordavano il viottolo che si inerpicava: ci volevano fiato e gambe prima di arrivare alla radura in cui si apriva la grotta di Grande Vecchio. Avrebbero dovuto allenarsi. E così fecero.

Grande Vecchio li attendeva sullo spiazzo, davanti alla grotta. In piedi, col volto aperto, lieto e beneaugurante.
La giornata era splendida: un sole caldo ma carezzevole, qualche batuffolo candido in cielo, un’aria leggera e frizzante. 
Piccolo Uomo aveva predisposto tutto quello che serviva per rifocillare gli ospiti, disponendo sui tavolacci davanti alla grotta ogni bendidio che i contadini della valle erano soliti portare periodicamente come omaggio a Grande Vecchio: forme intere di formaggi stagionati, abbondanti otri di vino rubizzo, grandi quantità di pane fatto in casa e di affettati casalinghi.

Grande Vecchio e Sommo Professore, prima si inchinarono reciprocamente in segno di benvenuto, poi si abbracciarono: con calore, ma con rispetto, quasi toccandosi appena.
«Credo siate stanchi per la salita», disse Grande Vecchio. 
«So cosa vi ha portati sin qui: la convinzione che io sia saggio e possa illuminarvi sulle cose che vi stanno a cuore. Naturalmente non saprei illuminare neppure la grotta, di notte, se non avessi una candela…».

Tutti gli allievi non nascosero un sorriso. Mentre Sommo Professore stava per ribattere e ribadire che la saggezza di Grande Vecchio era fuori discussione e il loro sentimento di deferenza per la sua autorevolezza era sincero. 
Ma Grande Vecchio, con la mano, prevenne ogni obiezione.
«Bando ai complimenti, Sommo Professore… Peraltro riconosco che, se avete deciso di ‘perseverare’, non essendovi bastato l’incontro passato, è responsabilità vostra». Poi aggiunse, sempre scherzando: «Siete manager, mi pare: e quindi dovreste sapere quello che fate...». 

Sommo Professore si voltò a guardare i suoi allievi e non poté trattenere un sorriso.
Grande Vecchio proseguì. 
«Comunque, dopo la lunga camminata, riposo e pranzo sono il giusto premio. Del resto, come diceva un tale un po’ più meritatamente famoso di me, ‘prima di tutto vivere e poi filosofare’…».
Piccolo Uomo confermò a suo modo: «Sì, e anche questo è un modo per non stressarsi…».

Ci fu una grande risata. Fu augurato buon appetito.
E già tutti si erano avventati sul pane, il formaggio e gli affettati. Si versarono le caraffe di vino e ognuno brindò con il vicino facendo tintinnare i boccali.

Grande Vecchio accarezzò la testa di Piccolo Uomo, con sguardo benevolente e ammirato: «Be’, a questo punto, il tema è trattato: mi hai rubato tutto quello che avrei potuto dire al riguardo…». 
Guardò, con occhi furbi e sfavillanti, la comitiva degli allievi, intenta a bere e mangiare con gusto. «Quando vi siete ben rifocillati, mi sa che potete pure ripartire…».

Sommo Professore ammise che la battuta di Piccolo Uomo era simpatica e anche azzeccata. Lui, però, aggiunse tra il serio e il faceto, si aspettava qualcosa di più.
Grande Vecchio annuì: ci avrebbe provato. Ma non si trattenne: «Eppure, Sommo Professore, i bambini, anche con le loro battute scherzose, dicono cose che noi, con le nostre affermazioni serie, troppo spesso seriose, non cogliamo. Le abbiamo dimenticate. E’ questo il problema di noi adulti. Dimentichiamo. Anche quando non abbiamo l’Alzheimer, abbiamo perso la memoria. Quella memoria di quando, da piccoli, vedevamo le cose così, semplicemente. Com’erano. E come sono. Senza 'farci sopra tante parole'.».

Il gruppo ascoltò: si era fatto silenzioso e attento. 
Grande Vecchio se ne rese conto e si scusò: 
«Vedete dove sta la saggezza che mi viene attribuita…? Ho fatto della inutile filosofia mentre eravate giustamente intenti a gustarvi il cibo e a far girare i boccali  di vino… Con i miei soliti pensieri ho interrotto il clima di sano e piacevole rilassamento che si era creato… Basta, mi impegno a non parlare più almeno fino al termine del pranzo…».

Il coro di protesta rese inutile l'intervento di Sommo Professore, già pronto a reagire contro la promessa di Grande Vecchio di tacere sino alla fine del pasto.
Intervenne Piccolo Uomo: «Non te la cavi così, Grande Vecchio. Sto imparando dalla vita che ognuno ha una parte da giocare: un po’ è quella che ognuno si dà, ma molto è quella che gli danno gli altri. Mi sa che il tuo ruolo, almeno oggi e qui con loro, sia quello di non stare zitto…».

Non c’era intenzione di chiamare l’applauso, ma l’applauso arrivò. 
E Grande Vecchio non lasciò perdere l’occasione per ribadire ciò che diceva un minuto prima: «Vedete, io la facevo lunga, Piccolo Uomo la fa breve. Dice cose che meriterebbero anche una discussione, vedendone tutto il chiaroscuro implicato, ma che hanno un indubitabile fondamento. E dunque, almeno per oggi, d’accordo, ha vinto lui: ritiro l’impegno di star zitto». 

Poi buttò uno sguardo su tutti, facendo l'occhiolino a Sommo Professore, e scherzò: «Almeno, se parlo troppo, anche aiutato dal vino, sapete con chi prendervela.».
Lasciò passare qualche secondo, per dosare l'effetto. Poi aggiunse, muovendo gli occhi verso i tavoli in modo furbetto: «Sembra che i capri espiatori siano sempre più utili nella vita. E mi pare che anche nel business non debba mai mancarne qualcuno pronto a prendersi la responsabilità delle nostre colpe. O non è così...?!».
Il gruppo reagì come il bambino colto in flagrante quando non può più nascondere la marachella. Sommo Professore subito rinforzò: «Eh sì, Grande Vecchio, accade accade...».
Comparve qualche sorriso un po' forzato, ma tutti si scambiarono occhiate complici: forse Grande Vecchio, se anche abitava quassù, tra le nuvole, sulla Montagna Più Alta, non era poi così fuori dal mondo.

Le ore trascorrevano liete e riposanti.
A metà pomeriggio non ci fu bisogno del richiamo di Sommo Professore: tutti avevano fatto a gara per aiutare a sparecchiare i tavoli ed erano seduti attenti, in attesa dell’intervento di Grande Vecchio.

Lui, in piedi di fronte a tutti, iniziò passandosi, con la calma studiata di chi sa di essere al centro dell'attenzione, una mano sulla pancia, facendo capire di essersi ben goduto il cibo e il vino.
E subito punzecchiò: «Allora, mi pare che il tema che quest’anno vi stressa sia lo stress. O sbaglio?». 
Sommo Professore annuì, serio e pensoso, assecondando il brusio ironico di consenso dei suoi allievi. Aveva pensato di introdurre la riunione con qualche sua parola, ma prese atto con piacere che il clima era perfetto: non c’era bisogno di lui.

Grande Vecchio chiese a Piccolo Uomo che gli portasse per favore un bicchiere d’acqua.
«Andrebbe bene anche il vino», commentò con malizia. «Ma dopo quanto ne ho bevuto, l’acqua è meglio».

Piaceva, l’ironia di Grande Vecchio, a tutti quelli che lo incontravano. 
Ed era la ragione per cui Piccolo Uomo lo aveva eletto a nonno preferito. Agli amici, giù in città, o ai genitori, che gli chiedevano il perché di tanto affetto, ripeteva: «Ti fa pensare. Dice cose profonde in modo semplice. Anche scherzoso. E poi, soprattutto, dice quelle cose scontate che abbiamo dimenticato appunto perché le consideriamo scontate. Lui, alle cose scontate, sa togliere la esse. Facendole contare ancora. Con una qualità rarissima, oggi, e che noi ragazzi apprezziamo particolarmente quando diciamo, in gergo, che quello è uno che ‘non se la tira’. Ecco, sta molto qui la sua vera autorevolezza. Lui ha sapere, ma ‘non se la tira’. Perché sa che non si finisce mai di sapere».

Arrivò il bicchiere pieno d’acqua.
Grande Vecchio lo prese in mano. 
Domandò al gruppo: «Secondo voi, quanto pesa questo bicchiere d’acqua?»
I top manager non osavano rispondere. Erano un po’ sorpresi. Che domanda… 
Poi qualcuno azzardò: «Forse 200 o 300 grammi?» 
Grande Vecchio approvò. «Sì, non abbiamo qui una bilancia, ma si può ipotizzare un peso simile. Però non è importante. O, almeno, ai fini del nostro discorso, il peso assoluto non conta.»

Ci fu silenzio. Il bicchiere d’acqua, il suo peso assoluto. Cosa c’entrava tutto questo con l’argomento per cui erano arrivati sin lì? Dove sarebbe andato a parare Grande Vecchio? Si ricordava che avrebbe dovuto parlare di stress?

Grande Vecchio guardò attentamente in faccia Sommo Professore. Anche lui rimase zitto.
«Vi dirò io cosa conta davvero. Anzi ve la direte voi stessi. Ma per proporvi la soluzione ho bisogno di altri tre bicchieri. Sempre pieni d’acqua. E ringrazio per questo Piccolo Uomo che ci sta facendo da cameriere.»

Piccolo Uomo corse nella grotta, dove c’era la damigiana che teneva in fresco l’acqua, e tornò subito portando tre bicchieri pieni su un vassoio.
Grande Vecchio chiese se si offrivano tre volontari. 
Come sempre in questi casi, ci fu un po’ di resistenza. 
Grande Vecchio tentò di superarla, con i suoi modi scherzosi: «Se qualcuno pensa che dopo sarà costretto da me a bere l’acqua, lo prevengo: la trasformerò in vino. E vi prego di credere che non sto bestemmiando. Vedrete, è facile: basta buttare l’acqua e al suo posto versare il vino. Mi pare che il vino sia piaciuto a tutti e non ho visto astemi…».

Tre manager si fecero avanti. Fu consegnato ad ognuno un bicchiere.
Grande Vecchio diede le istruzioni. A tutti disse di tenere il bicchiere in alto, con il braccio steso, più in alto che potessero. 
Poi chiese al gruppo di guardare l’orologio: lui non lo possedeva, si regolava col sole, ma era sicuro che, tra loro manager, cronografi precisi al millesimo di secondo non mancassero di certo. 
«Qualcuno segni il tempo. E ci dica quando è trascorso un minuto», disse.

Il silenzio assoluto diceva l’attenzione e la curiosità. 
Quando un allievo segnalò il minuto trascorso, Grande Vecchio chiese ai tre che avevano il bicchiere alzato di continuare a tenerlo alzato, ma che focalizzassero l’attenzione su quel che provavano in quel preciso momento. 
Poi, si rivolse ancora al gruppo: «Adesso, lasciate passare altri tre minuti  e al loro scadere segnalatemelo».
Grande Vecchio ripeté l’istruzione data prima ai tre volontari: continuassero a tenere alzato, più in alto che potevano e con il braccio sempre teso, il bicchiere, ma si ricordassero di come si sentivano.
Quindi si rivolse sempre al gruppo: «Altri cinque minuti». 
Poi rassicurò tutti, per non tenerli troppo in sospeso, che allo scadere dei cinque minuti la prova sarebbe terminata.

Così avvenne. Grande Vecchio diede lo stop. 
I tre volontari, dopo nove minuti consecutivi con il braccio sempre alzato, ricevettero l’autorizzazione a posare i loro bicchieri: all’unisono, come se si fossero accordati, cominciarono a massaggiarsi il braccio.
«Allora», chiese Grande Vecchio, un po’ sornione.  «Che mi dite a proposito del peso di quel bicchiere che tenevate in mano?».
«Che aumentava ad ogni minuto», rispose di getto il manager che non smetteva di strofinarsi il braccio. Gli altri due, naturalmente, confermarono. 
E Grande Vecchio commentò: «Ed erano solo nove minuti. Immaginate qualche ora. O addirittura una giornata. Il peso diventa impossibile. Costringersi a farlo, o costringere qualcuno a farlo, è una vera e propria tortura. Invece, la soluzione è semplice, no?».

Più di uno non riuscì a trattenersi dall’esprimere a voce alta la soluzione: ovvia, naturalmente. «Posare il bicchiere».
Grande Vecchio rinforzò: «Già, posare il bicchiere». 
Lasciò trascorrere una trentina di secondi. 
Poi, aggiunse: «Eppure…»

Il gruppo non sentì l’aggiunta di Grande Vecchio. 
Rimuginava. 
L’esperimento, tutti riflettevano, diceva il vero: da questo punto di vista era inoppugnabile. All’inizio la fatica nel tenere il bicchiere alzato non si sente: anzi, come ammise uno dei tre manager volontari, era quasi gradevole. Serviva ad alimentare la tensione, l’impegno a proseguire. Ma poi, la fatica cominciava a sentirsi. Fino a diventare pesante e a indolenzire il braccio. Certo, superato un certo limite, magari di ore, diventava impossibile tenere il bicchiere in alto.

Sommo Professore ruppe il rimescolio interiore dei pensieri del gruppo. 
Si rivolse ai suoi allievi, guardandoli in viso: «Ricordate? La distinzione tra ‘stress buono’ e ‘stress cattivo’…».

Un manager intervenne deciso: «Già, facile dire che c’è una soglia: sul piano concettuale tutti capiscono che il cosiddetto eustress può diventare distress. Ma in pratica? Quando accade? Qual è la misura oltre cui c’è distress?».
Grande Vecchio decise di potersi permettere una battuta: il clima informale e di buona relazione tra lui e tutti i presenti gli consentiva un azzardo. 
Chiese a chi aveva appena parlato di ‘misura’. «Scusate, signore, vi posso porre una domanda personale?»
Naturalmente fu subito autorizzato: «Certo, Grande Vecchio, chiedetemi ciò che volete».
«Voi siete ingegnere, per caso?». 
L’interessato non si offese, anzi fece un sorriso largo e condiscendente: «Sono abituato a questi sfottò: sì sono ingegnere. Come molti in questo gruppo, peraltro…». 

Grande Vecchio si affrettò a precisare, sempre sul piano scherzoso: «Non è un reato, naturalmente… Ma non occorre che vi spieghi come mai ho avuto questa intuizione… L’approccio dell’ingegnere al mondo è fondamentale, e guai se mancasse: il mondo sarebbe preda, più di quanto già non sia, di parolai e pressappochisti. Il punto è che non tutto, al mondo, è misurabile. ‘Non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato’. E’ un frase famosa, attribuita non ad un ingegnere, ma ad un fisico, oltre che filosofo, certo più autorevole di me, e che si intendeva di numeri, e di realtà (fisica, appunto), come e più di un ingegnere: tanto da vincere un premio Nobel. Questo per dire che credo che neppure l’autore della citazione, Albert Einstein, saprebbe fissare la soglia che cerchiamo: quella oltre la quale, per ognuno di noi (e sottolineo: per ognuno di noi), lo stress buono diventa cattivo. Però ciò non significa che quello cattivo non esista: e basta chiedere conferma ai tre nostri amici dell'esperimento con il bicchiere in mano, se non riusciamo a recuperare subito alla mente l’esperienza diretta che senz’altro ognuno di noi ha potuto fare più volte nella vita».
Il gruppo tornò in silenzio. 
Finché Sommo Professore si ricordò dell’aggiunta finale di Grande Vecchio, fino a quel momento ignorata. «Ma voi, Grande Vecchio, prima, avete lasciato in sospeso il vostro pensiero mentre dicevate ‘eppure…’».

Ci fu un mormorio di supporto.
Grande Vecchio riprese: «Sì, dicevo ‘eppure’ perché, quando il bicchiere d’acqua, a un certo punto (non ‘sappiamo’ quando, ma sappiamo perfettamente ‘sentire’ quando questo avviene…), diventa talmente pesante che ci fa male il continuare a reggerlo, posarlo  e non tenerlo più in mano dovrebbe essere la cosa più ovvia. Ed è anche l’unica soluzione. Invece, a guardare ciò che accade spesso, quasi normalmente, il dovrebbe non si trasforma in un è. Diciamo pure che troppo spesso non è. Sicuramente, almeno a me pare, anche se non sono ovviamente un esperto come voi, questo accade in campi che vi sono vicini. E allora si va a caccia di soluzioni finte: magari apparentemente più comode, rassicuranti, ma che appunto in quanto finte non risolvono, ma fanno soltanto credere di risolvere».

Sommo Professore aveva intuito dove Grande Vecchio voleva andare a parare: annuiva visibilmente con il capo, comunicandogli il suo pieno assenso. 
Alla fine non si trattenne: 
«Sono totalmente d’accordo con voi, Grande Vecchio. Volete che concluda io ciò che voi stavate dicendo, facendo esempi tratti proprio dal campo che noi frequentiamo: il management, l’impresa?».

Grande Vecchio lo incitò volentieri a proseguire. 
E Sommo Professore, ringraziandolo, si rivolse direttamente ai suoi allievi. 
«Siamo perfettamente in tema, signori. Ero convinto che Grande Vecchio ci avrebbe dato stimoli importanti. Ma il risultato è andato al di là di quanto mi attendevo. Ne sono felice. Stiamo al tema per cui siamo saliti fin qui: lo stress. Sappiamo tutti quanto oggi sia di moda. Tutti ne parlano, anche con qualche imprecisione di linguaggio. Ormai tutto è diventato stress, e come sempre, quando questo accade, si perde il significato vero, e utile, dei concetti. Ma tralasciamo, ora, questo punto. Al di là di tanto stress presunto, che forse non è utile inquadrare come stress, quale risposta si dà (noi diamo, voi date) alla quantità di stress genuino, e non certo buono, che ci invade giornalmente? Perché è indubbio che la pressione che riceviamo, o cui voi sottoponete i vostri collaboratori, si chiami come vogliamo questa pressione, è crescente. Al punto che spesso è insopportabile. Bene, qual è la soluzione che in genere diamo al cattivo stress che ci intacca fisicamente e psicologicamente, talvolta ci stravolge, rendendoci la vita quasi impossibile da vivere? Per colpa o per dolo, troppo spesso è una risposta apparente, di fatto una pericolosa ‘non-risposta’. Non si intende eliminare la causa dello stress, tutt’al più, quando si mostra interessamento al problema (e alla persona interessata), si lavora sugli effetti collaterali. Ma la riduzione dello stress (oggi attorno a questi due termini, riduzione e stress, prosperano i consulenti e i coach più disparati), lasciando intatta la causa dello stress, è una via comoda, quando non manipolativa. Sarebbe come far fare un corso ai tre nostri amici che fossero costretti, non per nove minuti, ma per una giornata intera e anche più, a tenere ininterrottamente in alto i bicchieri e che ovviamente accusassero un dolore insopportabile e non più oltre sostenibile al braccio... fargli fare un corso, dicevo, perché vedano il mondo in rosa e si convincano che in fondo i bicchieri, se pensati leggeri, non pesano. Magari inventandogli pure che il bicchiere non è pieno, ma mezzo pieno e quindi mezzo vuoto, e anzi, a guardarlo bene, è vuoto del tutto e il vetro è tanto leggero che non pesa, non può pesare. Oppure si potrebbe invitarli, sempre mentre sono lì col bicchiere alzato e il braccio dolorante, ad assumere degli antidolorifici. O, meglio ancora, qualche antidepressivo più o meno drogante, che non gli abbatta il morale, li mantenga motivati all'obiettivo (che magari neppure conoscono) e li renda più tonici nelle prestazioni. Tutto questo per non ricorrere all’unica vera soluzione che qualunque bambino suggerirebbe, ai tre del bicchiere alzato, e che taglia il problema alla radice:  e cioè di posare il bicchiere. O, anche, per trasferire l'esempio alla vostra realtà e rifacendoci al grande ruolo di responsabilità e di potere di cui voi godete, nelle imprese e nell’economia del Paese, dire a chi fino a quel momento abbiamo obbligato a tenere alto il bicchiere (e ogni volta sempre più in alto), di finalmente posarlo

Sommo Professore, che si era alzato in piedi per farsi sentire meglio, si era lasciato prendere dalla foga. Ma tutto quello che aveva detto lo voleva dire da tempo.
Si sedette soddisfatto, convinto di aver assolto il suo dovere di consulente: che sa essere critico e non collude, né con la committenza nè con gli allievi.
Ripeteva spesso: «essere pagati non significa essere comprati».
Anche stavolta, ricordando la parcella che gli avrebbero versato per la giornata, aveva cercato di mettere in pratica il suo motto.

Grande Vecchio aveva ascoltato con  attenzione, in disparte, e aveva ammirato l'energia che l'anziano professore aveva messo nelle sue parole: le condivideva in pieno, punteggiatura compresa.

I trenta manager erano rimasti turbati: non si aspettavano questo finale. 

Molti avrebbero voluto ribattere, anche se non avevano parole pronte per farlo.
Certo, per Sommo Professore e Grande Vecchio era anche facile dire ciò che dicevano. Loro non erano implicati. Non avevano le imprese da mandare avanti: i numeri ogni anno superiori da raggiungere, la concorrenza internazionale, i costi mai abbastanza bassi, la qualità da migliorare, il cliente da soddisfare, il personale da gestire.
Grande Vecchio stava qui sulla Montagna Più Alta: a godersi vista, aria, luce, sole, boschi. E a meditare. 
Sommo Professore ormai era anziano: non aveva neppure la responsabilità di dirigere una grande scuola internazionale di business con cui competere nel mondo, era ‘solo’ un docente prestigioso, con una lunga esperienza di consulenza e di formazione alle spalle, competente, senz’altro intelligente e anche prezioso per i suoi consigli. Ma un singolo: un singolo che rispondeva solo a se stesso di se stesso.

Eppure...

° ° °

Il sole prossimo al tramonto richiamava alla strada del ritorno: almeno per raggiungere, ancora con la luce, la pensione a mezza costa in cui avevano deciso di passare la notte per poter poi riprendere l’indomani il cammino verso la città.

Grande Vecchio avvertì anche nella sua anima il travaglio di pensieri e sentimenti che aveva toccato i suoi ospiti. Sapeva che ci voleva ben altro per mandare in crisi un gruppo di top manager, necessariamente vaccinati a tutto lo stress che erano abituati a ricevere e procurare nel ruolo di vertice che svolgevano. Eppure ebbe un moto di empatia.
E il suo augurale ‘buona vita’, che riservava ai suoi interlocutori al momento del commiato, quella volta non fu rituale. Voleva essere particolare: con un’accentuazione davvero ‘sentita’ sia sul sostantivo (vita) che sull’aggettivo (buona).

Tutti ringraziarono, sinceramente. 
E ognuno si inchinò, compunto, passando davanti a Grande Vecchio, mentre riceveva da lui una mano veloce ma calorosa sulla spalla.

Uno dei trenta manager fu colpito da questo augurio e ci rifletté a lungo, non solo sulla strada del ritorno. 
Quella parola, ‘vita’, gli entrò dentro e non gli uscì più. 
E per la prima volta si trovò a pensare che forse c’è chi vive e c’è chi funziona.
Decise che si sarebbe lasciato quel pensiero in testa e in pancia per l’avvenire.
Da conservare, come fosse un seme.
Era sicuro che, almeno a lui, avrebbe prodotto un buon frutto.

*** Massimo Ferrario, Il bicchiere e lo stress, per Mixtura, 20015 - Rielaborazione creativa di un’idea contenuta in un racconto anonimo diffuso anche in internet.
(*) M. Ferrario, Il tempo e le pietre del vaso, 'Mixtura', 21 marzo 2015, qui 


In Mixtura ark #Favole&Raconti di Massimo Ferrario qui

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