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sabato 12 settembre 2015

#FAVOLE & RACCONTI / Soldino ce l'ha fatta (M. Ferrario)

C’era una volta un bambino che era stato allevato fino all’età adulta su una tavola di Monopoli in formato gigante. Del mondo, conosceva solo Monopoli: la disposizione delle caselle, le regole, le tecniche di gioco migliori. La sua realtà finiva ai bordi di quella tavola. I dadi, le carte, i piccoli alberghi rossi e le casette verdi. Sapeva dov’era via dei Giardini, piazza Giulio Cesare, la Stazione Nord... Sapeva come superare indenne le insidie del percorso e come accumulare le migliori proprietà. Si era abituato a suddividere ordinatamente i tagliandi del denaro contante. Per lui la vita era quel gioco, e viceversa. 
Lo avevano chiamato Soldino. 

Monopoli era il mondo intero, per Soldino: il meglio che lui potesse immaginare per sé. Tutta la sua vita era lì. In quel gioco lui trovava la definizione della sua intera esperienza.
Soldino si era convinto che applicandosi coscienziosamente a Monopoli avrebbe capito tutto anche della vita. Le regole erano logiche, razionali, imparziali. In fondo tutto era semplice: lo scopo era vincere. Continuare a giocare per poter continuare a vincere. Lui avrebbe dovuto soltanto perfezionarsi, sino a diventare un grande esperto: di Monopoli, quindi della vita.
Soldino aveva dei compagni di gioco bravi e appassionati. A volte vinceva, ma troppo spesso perdeva. E queste sue sconfitte erano la ragione perché lui cercasse ogni giorno di aumentare l’impegno e la volontà.

Con gli anni, mentre Soldino e i suoi amici passavano la vita intenti al loro gioco, si formò, attorno alla tavola di Monopoli, come una specie di grande gabbia, dalle sbarre di vetro trasparente, che isolava tutti dal mondo. Ma Soldino e i suoi amici non se ne accorgevano. E continuavano a giocare.
Giunse però un giorno in cui Soldino cominciò a sentire che qualcosa non andava. Nel profondo, nell’intimo, avvertiva una sensazione di disagio. E il disagio diventava sempre più forte. Non sapeva dare un nome a questo malessere, ma capiva che c’era qualcosa di fuori posto che cresceva dentro di lui.
Faticava a dormire. Nel letto, di notte, si rigirava in continuazione, prigioniero dell’insonnia. 

Finché una mattina, all’alba, fece un sogno, che ripeté per giorni. Compariva all’improvviso una bambina. Sorridente. Un viso luminoso, occhi azzurri come il cielo, lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle. Lei lo prendeva per mano, decisa, anche un po’ imperiosa, e lui si faceva docilmente trasportare verso un bosco. Lo attraversavano insieme, mentre un lieve vento accarezzava i loro corpi vestiti di panni leggeri. Arrivavano ad un ruscello e lo risalivano fino alla fonte. Qui ambedue si piegavano sull’acqua e si bagnavano il viso e il cuore. Soldino, ogni volta chiedeva alla bambina come si chiamasse e lei gli rispondeva Felicia. Poi, Felicia lo tirava a sé, accogliendolo dolce tra le sue braccia. E a questo punto, lei e il sogno, svanivano in un pulviscolo di nebbia. 

Soldino, dopo ogni sogno, si svegliava con una sensazione strana: rasserenato e in qualche modo ritemprato, ma anche abbattuto per il contrasto con la realtà. Sentiva che avrebbe dovuto fare qualcosa, ma non riusciva a capire cosa.
  
Ne parlò con i compagni di gioco, che lo tranquillizzarono: «Non è niente, Soldino. Devi solo impegnarti di più. Se ti impegni di più, vedrai che vinci di più. E passa tutto».
Ma Soldino continuava a non stare bene. Pensava a Felicia. Desiderava il suo sorriso. Avrebbe voluto davvero correre con lei nel bosco. Bagnarsi il viso e il petto con l’acqua di fonte. E poi spalancare le braccia al sole, facendosi solleticare la pelle dall’aria tiepida che asciugava le gocce. 
Invece Felicia non c’era. 
Eppure, doveva esserci un bosco da qualche parte.

I suoi compagni insistevano: «Vedi, Soldino, lo scopo della vita è vincere. Forse per questo non ti senti bene: perché non vinci abbastanza. Datti da fare. Vedrai che vincerai più spesso. Allora sarai finalmente contento. E tutta la vita ti andrà per il verso giusto. E’ questo il segreto della felicità: vincere». 
Loro continuavano a giocare: avevano in mente solo questo. 

Ma una sera, in cui il malessere sembrava avvolgerlo tutto, Soldino sentì salire da dentro una domanda che non si era mai fatto: «Che vi sia dell’altro, nella vita, oltre a Monopoli?».
La domanda lo spaventò e per scacciarla subito, decise di riconcentrare ogni sforzo sul gioco. 
Per qualche giorno, aumentò le vincite e i compagni si congratularono con lui. 
«Vedi, Soldino, stai imparando a vincere. Hai superato la crisi». E gli davano grandi pacche sulle spalle. 
Ma la notte il tormento riprendeva. 
Finché in breve Soldino si ammalò. Si sentiva soffocare. Quando era sveglio, avvertiva un peso insopportabile sul torace, come vi fosse salito sopra qualcuno. E di notte non dormiva e non sognava più Felicia. Anche se Felicia l’aveva sempre in mente.
Non poteva continuare così.

Soldino non seppe quando gli venne il pensiero, ma ad un certo punto si trovò a immaginare l’inimmaginabile: che sarebbe stato bello andarsene. Dimenticare la tavola di Monopoli. Abbandonare il gioco. Evadere. Per sempre. 
Già, ma dove?
Era un pensiero sovversivo. Eppure, solo il fantasticare sulla fuga lo faceva stare un po’ meglio.
Soldino si confidò con il suo miglior amico. 
«Andartene? E dove? Il mondo è qui, Soldino. Non inseguire strani sogni. E’ questa la realtà. Non ce n’è un’altra. Hai solo un momento di crisi. Vedrai, passerà. Può succedere a tutti di provare ogni tanto qualche sbandamento. Ma bisogna reagire. Dipende da te. Se lo vuoi, ne verrai fuori. Devi solo credere che puoi farcela. Poi, sono sicuro, tornerai a giocare con ancora più voglia di vincere di prima.» 
Soldino si rese conto di non essere più capito neppure dal suo migliore amico. Tutti gli sembravano sempre più insensibili a ciò che lui provava. Anzi, cominciavano a irritarsi e gli manifestavano apertamente il loro risentimento. Diventando ogni giorno più duri, insofferenti, intolleranti. E soprattutto quelli che vincevano più spesso avevano iniziato a prenderlo in giro. Il sognatore, lo avevano soprannominato.

Soldino era arrivato ormai a un punto morto. Non solo non era più interessato al gioco, ma cominciava a provare disgusto ogni volta che vedeva la tavola di Monopoli. E d’altra parte non riusciva ancora a mettere in pratica la sua idea di fuga. 
Si sentiva in trappola.
Tra l’altro, si rendeva conto di essere divenuto lui stesso una minaccia per i suoi compagni: il suo malessere turbava il regolare svolgimento delle partite e ormai tutti lo accusavano di intralciare il loro desiderio di continuare a giocare in pace.

Fu così che un giorno Soldino si lasciò andare a un pianto di disperazione. Aveva le spalle voltate verso i compagni che continuavano a giocare e batteva con furia le mani contro le pareti trasparenti della gabbia in cui ormai aveva capito di essere prigioniero. Tra le lacrime, iniziò a chiedere aiuto. Prima a bassa voce, poi sempre più forte. Fantasticava. Ora Felicia sarebbe venuta a prenderlo e l’avrebbe portato via. Nel bosco.

A sua insaputa, da fuori, un gruppo sempre più numeroso di persone lo stava guardando, colpito dalle sue invocazioni di aiuto. 
Lo osservavano e scuotevano la testa: quando il gioco prende il sopravvento, non è più un gioco. 
Tre persone, mosse a compassione, decisero allora di rispondere alle richieste di aiuto di Soldino. Si staccarono dalle altre ed entrarono nella gabbia, passando senza difficoltà attraverso le sbarre trasparenti: afferrarono Soldino per le braccia e incominciarono a trascinarlo fuori. 
Non furono sorpresi dalla reazione. Soldino, sentendosi afferrare e spingere verso l’esterno, cominciò a divincolarsi e a scalciare. Era spaventato. Anzi, proprio atterrito. In fondo, lo stavano allontanando da quello che era stato fino a quel momento il suo mondo, la sua vita.
Soldino fu preso da un attacco di panico. Quelle mani che lo volevano fare uscire l’avrebbero portato alla morte. Si ribellò, disperato, e ne morse una.
 «Aiuto, lasciatemi! No, non voglio...!». Non avrebbe più rivisto i piccoli alberghi rossi, le casette verdi, via dei Giardini, piazza Giulio Cesare...  

I soccorritori sapevano che Soldino aveva bisogno del loro intervento e che senza di loro lui non sarebbe mai riuscito ad abbandonare la gabbia. Lo trascinarono a forza sino alle pareti trasparenti. Lui aveva gli occhi sbarrati. Oltre la gabbia, ci sarebbe stato l’ignoto. 
Soldino resisteva, mentre veniva tirato verso l’esterno. Cadeva, si ritraeva, e più loro lo spingevano fuori più lui cercava di rientrare, divincolandosi. Urlava. Gli sembrava di morire. 
I suoi compagni di gioco, udendo le grida e notando quanto stava accadendo, accorsero in suo aiuto, imprecando contro gli intrusi. Ci fu un parapiglia. Volarono cazzotti. Arrivarono altri soccorritori in aiuto dei tre. Soldino piangeva e protestava. Alla fine, proprio lo sconosciuto che aveva avuto la mano morsicata, diede uno strattone decisivo e Soldino si ritrovò all’esterno della gabbia.

Si fece silenzio. A Soldino furono tolte le mani di dosso. E lui, sia pure ancora barcollante, riuscì a restare in piedi. Aveva smesso di piangere. Aveva la camicia strappata ed era rimasto a torso nudo. Cercava di capire cosa era successo. E il luogo in cui era finito.
Roteò gli occhi a 360 gradi. Aveva temuto di morire. Ma non era morto. 
Sì, era vivo. Il suo nuovo mondo era grande. Grandissimo. E non aveva confini. Niente sbarre. E niente Monopoli. 
Un panorama infinito. Mai visto nulla di simile. E tutto da scoprire. 
Soldino si mise una mano sul petto. Era sparito il dolore. Era scomparsa la paura. Cominciava ad assaporare una nuova serenità. Provava una tranquillità mai provata. Era libero. Gustava tutto ciò che vedeva. 
Poi, l’occhio la incrociò. E la mise a fuoco. La gabbia. Il mondo da cui era stato trascinato fuori. E risentì alla bocca dello stomaco l’angoscia che l’aveva accompagnato negli ultimi tempi. 
Ripensò al sogno delle ultime notti. E gli parve di vedere, vicino alla gabbia, Felicia: che gli sorrideva complice e lo incitava: «Andiamo, il bosco ci aspetta».
No, il nuovo ambiente non lo spaventava: ormai coglieva dentro sé una forza mai scoperta e una consapevolezza mai sperimentata. Questo mondo, fuori dalla sbarre trasparenti, era il mondo vero: e presto avrebbe spazzato via tutti i mondi finti che stavano dentro le gabbie. 
Soldino ora iniziava a capirlo. Anzi, a ‘sentirlo’. Nitidamente. Dal suo nuovo punto di osservazione, Soldino ebbe la certezza assoluta che il mondo di Monopoli era condannato a finire. E si immaginò un grosso martello che si sarebbe abbattuto sulla gabbia. Molto presto. Il gioco aveva le ore contate.

Soldino osservò i suoi compagni che dentro la gabbia continuavano a sfidarsi, concentrati sui biglietti verdi. Erano in pericolo. Dovevano smettere. E uscire. Nel mondo. Prima che fosse troppo tardi e finissero tutti schiacciati dal grande martello.
Soldino decise di rientrare nella gabbia, per avvertirli: per dire loro quello che dall’interno non si capiva, ma che dall’esterno era evidente. 

I suoi compagni, nel vedere ricomparire l’amico, prima esultarono, credendo che lui ritornasse tra loro. Poi, quando capirono che non sarebbe rimasto, si stupirono. 
Lui parlò e loro l’ascoltarono, ma non gli credettero. 
«Un altro mondo? Fuori da qui? Ma sei matto, Soldino! Qui, qui dove siamo noi, questo è il mondo. L’unico, vero mondo è il nostro e non ne esistono altri. Sei tu che devi tornare. Vieni con noi, tra le casette verdi e gli alberghi rossi... Qui si fanno affari e si vince... Qui si vive e si è contenti...». 
Soldino non desisteva: «Vi assicuro, il mondo vero è fuori. Questo in cui voi siete non è il mondo. E comunque il vostro gioco sta per finire. Fate come me: andate fuori, uscite, scappate. Provate a vivere fuori di qui. Siete in gabbia. Perché non ve ne andate, prima che sia troppo tardi?».
A quel punto i suoi compagni persero la pazienza. Lo zittirono. E passarono agli insulti. «Vattene. Non vogliamo più avere niente a che fare con te. Lasciaci continuare a vivere la nostra vita. Lasciaci continuare a giocare il nostro gioco».

Soldino fu costretto ad arrendersi. Capì che loro erano davvero convinti di non essere in gabbia. E che fuori dall’unica realtà di Monopoli ci fosse il nulla.
Provò un dolore fortissimo e non riusciva a darsi pace: continuava a chiedersi come fare per avvertirli del pericolo ed evitare che gli accadesse l’inevitabile.
«E’ terribile. Credono di vivere. Ma stanno solo giocando: tutti presi dal bisogno di vincere e fare soldi. E la loro fine è imminente. Ma perché non lo vogliono capire?».

Fu in quel momento che ricordò. A loro era mancata la bambina del sogno. Lui era stato fortunato.
E fu in quel momento che Soldino si sentì battere una mano sulla spalla. Era lei, Felicia. Aveva occhi complici.
«Volevo darti il benvenuto nel mondo».
Soldino sentì il cuore balzargli in gola. 
«Sei tu Felicia? Davvero? Ma allora esisti. Non sei un sogno. Fatti abbracciare».
Felicia, sorridendo, si schermì, arretrando di un passo. «Non ne hai bisogno. Sono nel tuo cuore».
Soldino si toccò il petto. Era bagnato, come di rugiada. La pelle brillava di tante gocce. Ricordò l’acqua limpida della fonte, nel bosco. 
«Non potrò mai sdebitarmi, Felicia. Mi hai salvato la vita.»
Felicia aveva il dito alzato. Lo muoveva lentamente, come a dire no. Mentre gli occhi le risplendevano di tenerezza, lo corresse. «Io non c’entro. Sei tu che devi ringraziarti».
Soldino obiettò: «Ma sei tu che mi hai invitato nel bosco. E mi hai portato alla fonte del ruscello».

Felicia stavolta gli disegnò il naso con le dita di velluto. Aveva uno sguardo colmo di dolcezza.
«E’ vero. Ma eri tu che sognavi. E tu mi hai chiamato. Io, semplicemente, sono venuta. E ti ho indicato la strada. Tu hai cominciato a percorrerla. E qualcuno, sconosciuto, si è comportato da amico e ti ha aiutato a completarla. Forse a chi hai morso la mano, ora almeno una stretta di mano gliela dovresti…»

Gli soffiò un bacio sul palmo. 
Poi corse via. 
Dentro una nuvoletta vaporosa.

*** Massimo Ferrario, Soldino ce l'ha fatta, 2013-2015, per Mixtura - Rielaborazione creativa di una favola nota e raccontata in più versioni (tra cui quella di Kurt Hanks, Navigare nel cambiamento, 1994, Angeli, Milano, 1996). 


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