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venerdì 7 agosto 2015

#SPILLI #RITAGLI / Felici, obbligati a esserlo, altrimenti si è licenziati (Giuliano Aluffi, Massimo Ferrario))

Non sono rimasto sorpreso dall'articolo che qui sotto riporto (in un estratto molto lungo).
Da sempre, nel mio piccolo e dal piccolo della mia professione di formatore e consulente di sviluppo organizzativo, metto in guardia da certe (perverse) tendenze in atto, nell'impresa e nel sociale.
Tuttavia, confesso che, leggendo quanto riportato tra virgolette dalla bocca del sociologo inglese Davies, autore di un libro sulla felicità nell'industria, frutto di una sua ricerca in proposito, ho avuto un brivido per la schiena. 
Mi piacerebbe che il brivido lo provassero anche altri.
Magari, soprattutto, quelli che si occupano di persone nelle organizzazioni di lavoro (loro dicono 'risorse umane').
Temo invece che il brivido resterà limitato a poche schiene. 
E ci sarà se mai una delle tante e solite alzate di spalle per una inutile e fastidiosa provocazione. In particolare da parte di non pochi (troppi), anche addetti ai lavori, impegnati quotidianamente a migliorare i modi privati e personali per essere felici, stando di conseguenza ben lontani da tutto ciò che potrebbe incrinare la loro tanto ben coccolata visione positiva del mondo.

Del resto, ormai anche in Italia ci stiamo attrezzando: sono sempre più numerosi i consulenti e coach 'esperti di felicità' che ci ricordano che 'dobbiamo' essere felici perché tutto-va-bene-madama-la-marchesa e chi-critica-è-uno-che-si-lagna o un pericoloso sovversivo da isolare. 
E ci ripetono la litania che dobbiamo mettere dentro noi stessi passione, energia, autostima, sogno e voglia di volare: e tutto passerà. «Basta un poco di zucchero e la pillola va giù», cantava la famosa Mary Poppins ai bambini recalcitranti. E in fondo per qualcuno noi non siamo diversi, solo un po' più cresciuti all'anagrafe.
E' vero, non abbiamo ancora moltiplicato, in giro per le imprese, il modello che sembra essere di Google (ce lo ricorda sempre l'articolo qui sotto): e che ha il suo perno nel ruolo chiave di CHO, Chief Happiness Officer.
Però ammettiamolo: possiamo vantare, addirittura come Chief Happiness Officer d'Italia, un presidente del Consiglio.

Quindi, piantiamola: siamo 'in'. 
E chi non è 'in', capisca in fretta di essere 'out'. 
E impariamo una buona volta ad essere felici di essere 'cool'. 
Come dicono quelli che ogni due per tre usano l'inglese e dicono Jobs Act. Per prenderci in giro meglio. (mf)

° ° °

Il segreto per trovare e tenersi stretto un posto di lavoro? I muscoli del sorriso, quelli che sarà sempre più utile esibire per compiacere l'occhio vigile dei responsabili delle risorse umane. Costoro, infatti, sono sempre più inclini a pretendere la felicità dai dipendenti.
Lo denuncia il saggio The Happiness Industry: how the government and big business sold us well-being (ed. Verso) che il sociologo inglese Wiliam Davies, docente alla Goldsmiths University di Londra, ha appena pubblicato. «Le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici - attraverso corsi motivazionali, pasti e massaggi gratis in ufficio, gare di pittura o canto tra i dipendenti, che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d'occhio», dice Davies.
E per i guastafeste non c'è futuro, basta pensare a uno dei guru del nuovo approccio alla felicità se non indotta almeno "fortemente raccomandata": Tony Hsieh, ad di Zappos, colosso mondiale della vendita di scarpe online. «Hsieh invita le aziende a identificare il 10% degli impiegati meno favorevoli alle iniziative pro-felicità, come esercizi di team building e giochi, e a licenziarli. Per Hsieh in questo modo si trasformerebbe il restante 90% dei dipendenti in lavoratori super motivati», spiega Davies.

Ma perché la felicità è diventata così importante per le aziende, che oggi scimmiottando Google si dotano del Chief Happiness Officer, figura che ricorda "Heinz il galvanizzatoren" creato da Bonvi per le sue Sturmtruppen? 
«Oggi la felicità del dipendente è vista sempre più come capitale dell'azienda e leva di profitto: studi come quello pubblicato nel 2008 da Oswald, Proto e Sgroi dell'Università di Warwick indicano che la felicità dei dipendenti può aumentarne la produttività fino al 12%. E può ridurre assenteismo e giorni di malattia», ancora Davies.

Ma l'equazione tra felicità e produttività è controversa. (...)

«Da un lato gli studiosi di organizzazione aziendale ci dicono che la produttività aumenta se le risorse umane sono coinvolte e felici. Dall'altro lato i macro-economisti plaudono alla flessibilità e ne chiedono sempre di più. Ma la flessibilità crea un lavoratore poco coinvolto sul quale le imprese non hanno interesse ad investire», argomenta Emilio Reyneri, docente di Sociologo del lavoro all'Università Milano-Bicocca. «Se consideriamo l'Italia, l'andamento piatto della produttività dal 1995 a oggi può essere attribuito non solo alla mancanza di investimento in ricerca, ma anche alla precarizzazione del lavoro. Una risposta semplicistica, tanto invitante quanto fuorviante, a questo dilemma è puntare su una strada psicologica, e non materiale, verso la motivazione: convincere il dipendente ad essere soddisfatto senza alzargli stipendio né garanzie».

Insistere sulla felicità permette inoltre un allettante scarico di responsabilità: l'insoddisfazione verrà vista non più come colpa del management, ma solo del singolo e della sua psiche. 
Il problema è che la psiche non stacca mai: «L'azienda vuole che il dipendente sia sano e felice. Le attività che il dipendente svolge nel suo tempo libero, come alimentazione, sport, lettura, relazioni sociali, giocano un ruolo notevole nell'ottenere questo risultato. Ergo, oggi le aziende vogliono avere voce in capitolo sull'uso che i dipendenti fanno della loro dimensione privata», spiega ancora Davies.

Emblematico il caso della multinazionale svedese Scania, che produce veicoli industriali e ha introdotto il concetto di "dipendente 24 ore su 24". 
«Scania raccomanda ai suoi lavoratori uno stile di vita morigerato e salutare anche nel loro tempo libero. Nel saggio Healthy Organizations i sociologi Mikael Holmqvist e Christian Maravelles riportano che, per i responsabili HR di Scania, è importante «avere cura degli impiegati sia sul posto di lavoro sia fuori. Cerchiamo di aiutarli a vivere in modo più sano. Il nostro interesse per loro non finisce quando lasciano il lavoro», racconta il sociologo Carl Cederström, docente di organizzazione all'Università di Stoccolma.

L'azienda che vuole espandersi occupando tutto il tempo dell'impiegato può farlo solo quanto più si fa sfumato il confine tra lavoro e vita privata. 
Guru come Ricardo Semler, autore del bestseller The seven day weekend, raccomandano ai manager di «far sembrare il lavoro aziendale un piacevole intrattenimento». 
Ecco perché «gli uffici delle multinazionali più ambite hanno l'aspetto seducente e colorato del parco giochi», aggiunge Cederström. «Ma rimane pur sempre lavoro: l'ufficio non può diventare vero tempo libero, solo trasformarsi nella sua straniante imitazione».

Pionieri di questo approccio in Italia sono stati gli uffici aperti dai colossi del web, dotati di arredi fantasiosi che ammaliano i media ma suscitano perplessità negli osservatori più acuti, come il sociologo del lavoro Domenico De Masi: «L'Italia stenta a imitare gli Stati Uniti nelle cose importanti ma è rapida nel mutuarne le banalità. Le Human Relations e l'interesse dell'azienda per la felicità del lavoratore maturarono negli Usa dagli anni Trenta in funzione della motivazione degli operai. Gli studi di Elton Mayo alla Western Electric di Chicago avevano dimostrato che qualità e quantità del rendimento non dipendevano tanto dal salario quanto dalla motivazione e dallo spirito di gruppo».
E in Italia? «Qui la spinta si intrecciò con lo spirito di solidarietà e produsse casi esemplari come la Valdagno di Marzotto: una città costruita ex novo, in cui operai e dirigenti convivevano accanto alla fabbrica. Ancora più avanti si spinse Adriano Olivetti creando a Ivrea e Pozzuoli esempi insuperati di organizzazione della fabbrica e della città basata sul concetto di "comunità" dove efficienza, bellezza, democrazia concorrevano a creare una cultura del lavoro politicamente solidale, esteticamente raffinata, antropologicamente felice.
Così lontano dai luna park di Google, paesi dei Balocchi con giostre e sorrisi in bella mostra e invisibili some.

*** Giuliano ALUFFI, giornalista, Condannati alla felicità, 'la Repubblica', 6 agosto 2015

LINK, articolo integrale qui

4 commenti:

  1. Un brivido infatti corre lungo la schiena. Anche se la cosa sembra così paradossale che viene anche da ridere.
    Questa frase è incredibile: "Hsieh invita le aziende a identificare il 10% degli impiegati meno favorevoli alle iniziative pro-felicità, come esercizi di team building e giochi, e a licenziarli. Per Hsieh in questo modo si trasformerebbe il restante 90% dei dipendenti in lavoratori super motivati».
    Nenache un comico la penserebbe.
    Come si a a dire una cosa del genere? Saranno anche motivati, ma è una motivazione generata dalla paura, non dalla felicità. E' una motivazione estrinseca non intrinseca. E fa tutta la differenza del mondo.
    Anche ad Auschwitz era fortemente motivati secondo Davies?
    Sono 50 anni o forse più che sappiamo che certi comandi sono impossbili come "Sii spontaneo", "Sentiti libero", tra cui anche "Sii felice". Non ti posso obbligare ad essere felice!!! Così come non ti posso obbligarmi ad amarmi.
    Mi sembra una teoria così campata per aria... che non mi spaventerei neanche troppo. O sbaglio? Magari visti i tempi meglio preoccuparsi davvero...


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  2. Vero: non si può obbligare ad essere felici.
    Ma evidentemente c'è chi si accontenta di licenziare chi non lo è.

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  3. L'articolo è interessante anche come spunto di riflessione sul "Diversity management", altro tema in gran voga nelle organizzazioni. In questo caso il diverso è per l'appunto l'infelice, cioè colui che si mostra tale nonostante i "lodevoli" sforzi dell'azienda di provare a trasformarlo.
    Secondo me il problema è più che altro numerico: le minoranze, a prescindere dal colore che hanno, fanno sempre paura o danno fastidio. Dunque meglio estrometterle.
    Ecco allora la mia ricetta correttiva: infelici e insoddisfatti di tutto il mondo, uniamoci! Non appena avremo messo in minoranza questi instancabili fautori della felicità, della positività a tutti i costi, potremo finalmente stare in pace. Almeno fino al successivo capovolgimento di maggioranza.
    O fino a quando ci ricorderemo di essere TUTTI individui (cioè persone e non risorse, come ripete spesso Massimo), a prescindere dal nostro umore...

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  4. Già, Valerio: l'unione fa la forza.
    Ci sto.
    Naturalmente bisognerebbe che gli 'infelici', oltre a essere tali, riuscissero anche a essere sufficientemente incazzati per fare squadra. E una buona volta si mobilitassero contro chi, a furia di prescrivere occhiali rosa per tutti, finirà per mandare al confino chi è tanto cocciuto da voler continuare a vedere la realtà per ciò che è (e magari, oibò, a cercare pure di cambiarla).
    Se lo facessero (se lo facessimo) forse cambierebbe pure, in chi riuscisse a farlo, lo stato di 'infelice': qualcuno potrebbe diventare 'felice'.
    Io per esempio.
    Finirebbe allora come la favola: 'e tutti vissero felici e contenti'?
    Dipende: c'è felicità e felicità.
    Questa che sto sognando sarebbe meno stupida. E poi non è detto che gli altri, oggi felici, sarebbero ancora felici.

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