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sabato 15 agosto 2015

#RITAGLI / Università: studiare per la carriera o per se stessi? (Stefano Feltri)

Mi pare che l'articolo sollevi un problema sempre aperto e non facilmente risolvibile...
Credo che la domanda meriti di continuare a sollecitare riflessioni: di studenti, di genitori, ma anche di ognuno di noi che, in quanto membro di una società, è chiamato, giustamente, in vario modo, a contribuire al pagamento delle politiche di formazione pubblica. (mf)

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Viste le reazioni, tra insulti, commenti, condivisioni, al mio post precedente (“Il conto salato degli studi umanistici”) mi sembra che la domanda sia cruciale e meriti un ritorno: all’università bisogna studiare quello che serve a trovare un buon lavoro o quello che piace di più?

Vi riassumo la questione: il centro studi di Bruxelles Ceps ha pubblicato uno studio (che una delle sue autrici, Ilaria Maselli, ci racconterà nel dettaglio su carta nei prossimi giorni) che arriva a queste conclusioni sull’Italia: fatto 100 il valore medio attualizzato di una laurea a cinque anni dalla fine degli studi, per un uomo laureato in Legge o in Economia (o Scienza politiche, che però credo abbassi il valore medio) è 273, ben 398 se in Medicina. Soltanto 55 se studia Fisica oInformatica (le imprese italiane hanno adattato la propria struttura su lavoratori economici e poco qualificati). Se studia Lettere o Storia, il valore è pesantemente negativo, -265. Cioè fare studi umanistici non conviene, è un lusso. Che bisogna potersi permettere. (...) 

Il consorzio Almalaurea ha intervistato nel 2014 i laureati del 2009 per capire come stavano andando le loro carriere. Gli uomini laureati in ingegneria guadagnano 1759 euro, quelli in medicina 1668, quelli in materie scientifiche 1653, chi ha studiato economia e statistica 1602. Quelli che guadagnano meno: chi ha studiato scienze della formazione, 1201, chi ha fatto studi letterari, 1263, chi giuridici, 1305 (ma quest’ultimo dato è poco rilevante: un avvocato o un magistrato inizia davvero la sua carriera quasi due anni dopo la laurea ma poi progredisce molto in fretta nel reddito). Per le donne le differenze sono simili, ma guadagnano sempre circa 200 euro in meno dei maschi.

Più interessante il tasso di disoccupazione, numeri che i tanti che qui nei commenti dicono ai loro ragazzi di studiare solo “quello per cui si sentono portati” dovrebbero tenere bene a mente, magari con qualche senso di colpa. A cinque anni dalla laurea il tasso disoccupazione tra chi ha studiato medicina è 1,5 per cento, tra gli ingegneri il 2,9 per cento ma schizza al 17,3 tra chi ha studiato materie letterarie, al 14,6 per le materie giuridiche (che, di nuovo, meriterebbero una categoria a parte), 13,6 per cento per “geo-biologia”, 12,9 per psicologia, 12,5 per scienze della formazione. Chi studia materie letterarie, quindi ha un tasso di disoccupazione che è quasi il doppio della media, pari a 9,2 per cento. E non stiamo parlando di una disoccupazione immediata, fisiologica, di assestamento, ma a cinque anni dalla laurea. (...)

Nessuno dice che le materie che si studiano nelle facoltà che garantiscono redditi bassi e disoccupazione siano da disprezzare (con qualche eccezione, magari, ma di corsi inutili se ne trovano ovunque). Anzi, spesso sono interessantissime e cruciali per la nostra formazione come individui. Ma quello che forma l’individuo non necessariamente è utile anche a formare un lavoratore.
E’ un diritto – costoso, per la collettività – poter studiare quello che ci piace. Ma nessuno ha il dovere di pagarci per il resto della vita uno stipendio se quello che piace a noi a lui non interessa.

*** Stefano FELTRI, giornalista, Università, studiate quello che vi pare, ma poi sono fatti vostri, blog 'ilfattoquotidiano.it', 14 agosto 2015

LINK, articolo integrale qui

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