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martedì 16 giugno 2015

#SPILLI / Per non divulgare bufale dalla rete (M. Ferrario)

Stesso network. E, in pochi mesi, un secondo episodio. (*)
Può capitare.
I dati che girano in rete sono tali e tanti che è facile accada.

Eppure.

Un po' di senso 'acuito' (participio passato del verbo acuire) o di senso acuto (aggettivo che forse può rimandare al 'sesto sesto' e certo ha qualcosa in comune anche con il 'senso critico') potrebbe aiutare.
A cogliere l'inverosimiglianza.
O l'eccesso. 
O la genericità.
O la 'stramberia'.
O la scarsa autorevolezza della fonte: cioè del sito, o dell'autore.
In fondo, sempre in rete, la possibilità esiste. Cliccando, si trova quello che si cerca. E si ha conferma. 
Che si tratta di una bufala.
E si evita di sponsorizzarla.

Certo, dopo aver annusato odor di bufala, sempre che si abbia un minimo di naso, occorre digitare qualcosa che abbia a che fare con la (potenziale) bufala e poi scorrere con gli occhi i dati che ci vengono restituiti, in qualche decimo di secondo, dall'algoritmo di google. 
Però, spesso (e lo dico per esperienza), il dato che cerchiamo è abbastanza in alto nella pagina che ci viene ritornata: non c'è bisogno di scorrere a lungo. E la bufala si svela con facilità, oltre che con immediatezza. O quanto meno si scopre che il fatto venduto per vero è a forte probabilità non vero. E anche il verosimile passato per vero è una bufala, ovviamente.

Peraltro, lo so, è una faticaccia: costringere il dito a digitare la parolina di ricerca. E poi leggere ciò che abbiamo trovato. Entrare nei siti, magari tradurre. 
Tuttavia, sono convinto che sia sempre meglio che scendere in miniera. 
Io, per non vendere bufale, metto subito le mani avanti e confesso che in miniera non ci sono mai stato. Però, a quel che raccontavano i disgraziati di un tempo che c'erano stati, o quelli che, in qualche parte del mondo, ancora ci stanno, mi sa che la miniera è proprio un lavoraccio. Un po' più duro che digitare su google. E anche noi, che qualcuno pensa siamo tutti ormai immersi nel magnificato post-industriale, allegramente diventati 'consulentini' e 'managerini' più o meno rampanti, possiamo capirlo senza difficoltà, se usiamo qualche neurone e un grammo di banale capacità di immedesimazione.

Ma torno al tema.
Io non voglio rendere il discorso, né moraleggiante, né più grande di quanto è. Con tutti i problemi che esistono sul pianeta, non sarà sicuramente una bufala, aggiunta alle migliaia che continuano a circolare, che manda all'aria il mondo.
Verissimo.
E tuttavia.
Ci riempiamo la bocca ad ogni pie' sospinto di professionalità. E di qualità: dei prodotti e dei servizi che acquistiamo. Forse potremmo prendere in considerazione, oltre che quella degli 'altri', anche la qualità di quanto 'noi' facciamo. E il controllo di quanto 'noi' diciamo. O scriviamo.
Il 'ben-fatto' è un valore che ogni tanto, con retorica, mettiamo in campo. Facciamo bene: anche se, per me (e stavolta senza retorica) il ben-fatto corrisponde al fatto. Perché un lavoro fatto non bene, francamente non mi pare fatto per nulla. 
Però non mi oppongo al prefisso 'ben': usiamo pure pleonasmi e ridondanze se questo serve a farci prestare maggiore attenzione. 
E dunque viva il ben-fatto. 
Nei ...fatti, però. Non solo in teoria. O nelle convention. O negli articoli. O nei blabla: che spesso sono la stessa cosa di convention e articoli.

Certo, siamo umani e quindi sbagliamo. Tutti: nessuno escluso.
Quindi, domani, pure io che dico quello che sto dicendo e faccio il 'criticone-che-rompe', lo ammetto: nella mia compulsione da lettore onnivoro, unita a quella di scribacchino, che mi porta a incrociare quasi giornalmente blog e social, potrei prendere una bufala e rivenderla a chi mi legge (per colpa, naturalmente: perché se si trattasse di dolo, l'argomento non rientrerebbe nel tema di questo 'pezzo').

Ecco, se mai mi dovesse accadere qualcosa di simile, nonostante l'impegno che mai dismetterò nel mantenere 'olfatto acuto' e 'pensiero critico' (le due condizioni essenziali per minimizzare il rischio di finire abbindolati, quando non di abbindolare pure gli altri), fatemi scrivere qui sin d'ora, pubblicamente, le due sole speranze cui non voglio rinunciare.
La prima è che chi mi legge, magari annusando qualcosa di poco convincente, non si beva la bufala che gli ho rifilato: faccia appello per conto suo al sesto (e pure al settimo) senso, verifichi e, se mai, dopo, me lo comunichi, prendendomi sanamente in castagna. 
E la seconda (più importante: perché solo con la prima darei l'impressione, troppo comoda, di scaricare ogni responsabilità sul lettore) è che, quando fosse accertato che la mia era una bufala che ho contribuito a far girare, io sappia scusarmi e dire che ho sbagliato. Non che faccia finta di nulla o me ne dimentichi. O, peggio (è capitato), 'proietti' sul lettore la colpa: di non aver capito che era una bufala e di essersela bevuta. Nella migliore tradizione italica: per cui il cretino è sempre l'altro, mai noi.
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(*) - Il primo episodio l'ho raccontato, sempre su Mixtura, qui

*** Massimo Ferrario, per Mixtura



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