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venerdì 5 giugno 2015

#ARK #IMPRESA & SOCIETA' / Manipolare: illusione, collusione, delusione, 1993 (M. Ferrario)

Amo il rischio. E per questo propongo un mio saggio del 1993 in tema di manipolazione.
Il rischio è dato dal fatto che il pezzo richiede una lettura non breve e certamente non superficiale (anche se il linguaggio vuole evitare arzigogoli criptici e vuole essere chiaro ed esemplificativo). Ma ho deciso di correrlo perché l'argomento, se è nel piatto da tempo (come è confermato anche dalla datazione, che risale a oltre vent'anni fa), oggi in questo piatto non abbiamo più solo le mani, ma, a me pare, ci siamo dentro interi. 
Tutti. 
E quanto per scelta e volentieri o quanto per caso o insipienza, è tutto da stabilire.

La problematica descritta in questo testo ha per sfondo chi si occupa di consulenza e, in particolare, di formazione degli adulti, nelle imprese e, più in generale, nelle organizzazioni di lavoro. 
Ma credo risulti chiaro fin dalle prime note che il modo in cui la questione è trattata va al di là delle specificità di un contesto o di una professione. E gli spunti di analisi del 'meccanismo-manipolazione' e i suggerimenti per adottare (sempre che si voglia farlo)  una strategia che contenga o minimizzi i rischi di manipolare e di essere manipolati riguardano ognuno di noi, nelle relazioni che quotidianamente instauriamo, sul lavoro e nella vita comune. 

Lo scritto è tratto da un libro collettaneo che ha per titolo 'Manipolazione' ed era stato curato da una collega del tempo (Valeria Chioetto). 
Come si vede dai nomi indicati nella figura di copertina, riprodotta qui sotto al termine del saggio, vi hanno collaborato specialisti illustri, senz'altro più famosi del sottoscritto. 
Il volume naturalmente è oggi introvabile ed è scomparsa anche la casa editrice (Anabasi), che lo aveva editato, specializzata in collane di saggistica.

Spero che il testo, qui pubblicato senza correzioni  né di forma né di sostanza, possa dare qualche stimolo di riflessione. 
Le mie idee di fondo non sono mutate e rifirmo tutto: se mai, oggi sono più drastico nel sottolineare taluni fenomeni che vent'anni fa potevano intravvedersi come debole inizio di una tendenza. (mf)

° ° ° 

Siamo tanto abituati a camuffarci di fronte agli altri che finiamo per camuffarci anche di fronte a noi stessi. Francois de la Rochefoucauid

Quando potremo dire tutta la verità, non la riconosceremo più.
Leo Longanesi
L'arte di piacere è l'arte di ingannare.
Lue de Clapiers de Vauvenargues

Manipolazione: ragioni e titoli per parlarne
Facciamo costantemente uso di parole ambigue. Non sempre è un male. L'esattezza del codice specialistico, se impedisce i frequenti equivoci del linguaggio colloquiale quotidiano, produce freddezza: blocca, riduce, impoverisce. E il passaggio dal rigore alla rigidità è dietro l'angolo. L'indeterminatezza non sempre è confusione, spesso è ricchezza, fecondità: aggiunge, suggerisce, integra. E' l'apertura - tollerante, plurale - provocata dall'et-et, in contrapposizione alla chiusura - ultimativa, univoca - invocata dall'aut-aut. Qualche volta, però, l'ambiguità è solo intralcio: succede quando, lungi dall'aiutarci a capire di più - offrendoci una mappa di piste parallele, mai pensate e tutte seducenti appunto perché inesplorate - ci lascia immersi nel polverone dell'indistinto. Pretende di dirci tutto: che è il modo più sicuro per non dirci nulla.
Si potrebbero proporre molti esempi, ma basta stare al nocciolo dell'argomento trattato in questo libro: persuadere, manipolare. Che significano questi verbi? Chi persuade, chi manipola che cosa? Domande antiche, nate con l'uomo: alle quali sarà giusto continuare a rispondere anche in futuro, ad esempio senza le certezze e le arroganze di vent'anni fa. In quel periodo, il dizionario corrente era univoco al riguardo. La persuasione? Ovviamente non poteva che essere occulta. La manipolazione? Ovviamente un prodotto diabolico: da combattere senza mezze misure sul piano politico - e allora tutto era politica — e da trattare con il massimo del dispregio sul piano morale. Da un po' di tempo, tuttavia, sembra essersi rimesso in movimento il solito pendolo. Finita l'epoca della demonizzazione, c'è spazio per ogni atteggiamento: finalmente per problematizzare, ma anche talvolta - troppe volte - per quella facile e comoda neutralizzazione che assolve comunque.
Ciò che queste note propongono non è una trattazione accademica della tematica della manipolazione. L'angolo di visione è quello di un operatore professionale: non un teorico ma un empirico, che lavora sul campo come consulente di sviluppo organizzativo ed esperto di formazione per imprese e organizzazioni di lavoro in genere. Titoli di merito forse comuni a molti. La manipolazione, del resto, è questione aperta per chiunque: vivere significa incontrarla. E forse, l'unico modo per capirci qualcosa è quello di farne esperienza.
Le mie riflessioni sul tema attingono al mio quotidiano e diretto scontrarmi, perché pagato per farlo, con gli ingredienti e gli oggetti più critici del manipolare: il potere, sia di chi sta dentro che di chi opera fuori dalle organizzazioni di lavoro (manager, collaboratori, consulenti) e le necessità di crescita, miglioramento e benessere professionale e personale, di individui e gruppi che nelle organizzazioni lavorano e convivono.
Cercherò di seguire un percorso in quattro punti: 
(1) richiamerò, anche supportato da alcune divagazioni etimologiche, una possibile definizione netta di manipolazione, utile per evitare impieghi onnicomprensivi; 
(2) ricorderò alcune caratteristiche che mi paiono tipiche dei processi di manipolazione in generale; 
(3) sintetizzerò alcuni problemi specifici di manipolazione che la consulenza aziendale, e in particolare la formazione, affrontano nel loro operare quotidiano; 
(4) tenterò infine di individuare alcune probabili linee di attenzione alla questione, che possono ridurre in generale, e per la consulenza specialmente, rischi di rapporto strumentalizzante.

Manipolazione, strumentalizzazione, influenza, seduzione
Molti equivoci sul significato del termine manipolare nascono da almeno due equivalenze che a loro volta mandano automaticamente a due verbi che gli vorrebbero essere sinonimi. Sappiamo tutti che i sinonimi sono sempre altro rispetto al nome che pretendono di rispecchiare e anche stavolta la regola non subisce eccezioni. Penso a strumentalizzare e a influire.
(a) - Vediamo il primo, strumentalizzare. Il dizionario sottolinea l'azione di impiego di qualcosa o di qualcuno allo scopo di ottenere un preciso risultato. Se il verbo è applicato, come per lo più avviene, a persone (o situazioni: in cui però le persone hanno sempre parte), questo significa trattare l'altro non come fine, bensì come mezzo: dunque trasformare un essere umano in un oggetto, piegandolo e inserendolo all'interno del proprio piano di intervento. 
La strumentalizzazione può essere condotta in due modi: apertamente o nascostamente. 
Nel primo caso, se chi tenta di strumentalizzare non ha deciso di ricorrere all'imposizione violenta, è permessa la scelta fra accettazione e rifiuto.
Nel secondo caso, il soggetto può venire strumentalizzato senza neppure saperlo. 
Il dizionario non interviene con alcuna specificazione in merito, ammettendo dunque di fatto entrambi i casi. Tuttavia, mi pare che l'uso corrente riservi il verbo manipolare soprattutto a questa seconda eventualità e nelle righe che seguono cercherò di supportare questa accezione diffusa con qualche annotazione di natura etimologica.
(b) - La distinzione invece fra influire e manipolare dovrebbe essere più netta e l'etimologia anche in questo caso aiuta. 
Influire («scorrere, o far scorrere, dentro») è verbo morbido; manipolare («lavorare qualcosa con le mani») è verbo duro. Il primo ha a che fare con le cose fluide, il secondo con le cose ferme. Il primo evoca processualità - e quindi persone e relazioni, più che oggetti -, il secondo richiama fisicità
L'uso corrente di manipolare, peraltro, conferma: manipolatore è chi impiega le mani per impastare (il cuoco con i cibi), per trasformare oggetti (l'antico alchimista o il moderno chimico con gli elementi), per riportare a funzionalità organi del corpo malandati (come il fisioterapista, il chiropratico, il massaggiatore). Al contrario, l'utilizzo diffuso di influire, o influenzare, ha per complemento oggetto sia cose che uomini: si influenza il destino, il corso delle attività, un affare, ma anche - e soprattutto - un rapporto, una persona.
Si dirà: ma è proprio dall'uso corrente che sorge la confusione. Senza riguardo per l'etimologia, noi utilizziamo indifferentemente il verbo manipolare sia per cose che per persone. Ammettiamo, in genere con fastidio, di essere stati manipolati. Sogniamo, magari senza confessarlo, che ci piacerebbe manipolare il nostro interlocutore: cosi finalmente potremmo fargli fare quello che vogliamo, senza perderci in chiacchiere per tentare di convincerlo. La distinzione tra influenzare e manipolare, nell'impiego quotidiano, si appanna: e siamo daccapo.
In effetti lo sconfinamento terminologico è più formale che sostanziale: semanticamente, il linguaggio corrente si rivela infatti più preciso di quanto di solito si creda. Basta chiedere a ognuno di noi quale sinonimo evochi il verbo manipolare quando sia applicato a un individuo e non a una cosa. Si può dar per sicuro che il verbo strumentalizzare è il primo che sale in punta di lingua. E il vissuto comune, al riguardo, non ha dubbi: impossibile trovarvi un connotato positivo.
Dunque manipolare indica, nella sua accezione primitiva, un'azione fisica, la manualità concreta di un'azione di trasformazione esercitata sul dato reale. Cosi utilizzato, il verbo non è valoriale. Finché si tratta di oggetti, il problema della legittimità della «strumentalizzazione» sembra non porre dubbi. Eppure, anche la manipolazione di oggetti, in certi casi, suona - ma suona perché è - negativa. Un cuoco, per cucinare, deve manipolare il cibo, però certa manipolazione può suscitare l'interesse, più che di qualche gourmet, del nucleo antisofisticazione: e quel cibo, allora, potrà anche dirsi manipolato, ma si intenderà con ciò adulterato ('ad-alterato': «trasformato in altro da ciò che dovrebbe essere»). In questo caso, le mani, cioè, hanno fatto qualcosa in più che mettere insieme gli ingredienti appropriati: hanno agito sull'aroma degli ingredienti stessi, o del processo del loro influenzamento reciproco, modificandola. Il cibo non è più autentico ('authentikóx' «che è fatto da sé»): chi l'ha trattato non ne ha rispettato le caratteristiche naturali - una mela è fatta per essere una mela -, ma vi ha introdotto, dall'esterno, una deviazione; il soggetto che ha compiuto l'azione è andato al di là della finalità intrinseca all'azione stessa e in questo modo ha tradito, strumentalizzandolo, l'oggetto stesso, facendolo apparire altro da quello che è. Il prodotto finale, insomma, non è quello giusto, ovvero quello che si sarebbe ottenuto attraverso un processo di necessaria ma rispettosa manipolazione degli elementi in gioco: è ingiusto, in quanto ottenuto attraverso l'introduzione di elementi aggiuntivi, naturalmente estrinseci al processo stesso di elaborazione. Perché conta il risultato, ma conta anche il modo con il quale lo si raggiunge. E risultato e modi, quando manipolazione non è semplice e rigoroso uso di mani, possono essere artefatti: nel senso di costruiti ad arte, finti (la radice indoeuropea dell'aggettivo richiama il plasmare), e quindi dati per veri senza esser tali.
Ecco: nella sua accezione negativa, manipolare mi pare rimandi sempre al concetto di finzione. Vale per gli oggetti, e ancor di più per gli uomini. Chi manipola, bara. E chi bara, usa. Tratta gli altri come le carte: che dichiara di avere in mano e non ha, che nasconde e fa ricomparire in un gioco di cui lui solo conosce regole e obiettivi.
Gli esseri umani sono corpo e anima. Per il primo, la manipolazione può anche esser benefica: onorando antiche o nuove regole di medicina naturale, si riassestano ossa, si rassodano muscoli. Per la seconda, il danno, irrimediabile, è fatale: l'anima non sopporta il linguaggio delle mani, violento anche — forse soprattutto - quando è dolcemente accarezzante; ma esige la leggerezza e la morbidezzza delle emozioni e dei sentimenti, i tempi lenti e personali delle scelte che sono tali solo se autonome e consapevoli. Mettere le mani sull'anima altrui, modificandone la natura o il libero funzionamento, o comunque creare condizioni fisiche perché l'anima altrui si esprima in maniera condizionata, intervenendo surrettiziamente sul contesto a partire dal quale l'altro sviluppa il proprio autonomo processo di pensiero e decisione, significa introdurre un elemento artificiale di diversione, più o meno intenzionale. Il rapporto si modifica in un rapporto di contrabbando: l'altro si trova in un contesto, ma è portato a credere di operare in un altro. Se fosse libero di agire, forse penserebbe, sentirebbe, si muoverebbe diversamente: ma è sviato, portato fuori strada. Etimologicamente, se-dotto: ossia, più o meno dolcemente, condotto via da quella che poteva essere, ma ora non è più, la sua rotta. E dunque separato da se stesso: ridotto a cosa, e perciò disumanizzato, perché allontanato dalla sua anima, le sue attese, i suoi bisogni, le sue finaiità.
Qui la manipolazione non è semplice influenzamento, che è - o dovrebbe sempre essere - aperto, solare, e come tale evidente e legittimo sia nei riguardi di se stessi sia rispetto a chi ne è il destinatario. Per chi lo compie, in quanto espressione del proprio diritto a esistere nella relazione con l'altro e a modificare lo stato attuale delle cose. E per chi lo riceve, in quanto fornisce argomenti potenzialmente utili per una ridefinizione non necessariamente svantaggiosa della relazione.
Qui la peculiarità è invece l'influenzamento operato di nascosto, in modo sotterraneo, non contrattato: è il rapporto asimmetrico sul piano cognitivo, che pone uno degli interlocutori in una posizione di pre-potere, perché consente all'uno di usare la situazione nel modo in cui all'altro è invece impedito.
La seduzione mi pare rappresenti quindi, se accettiamo la definizione di manipolazione sin qui data, il logico alone connaturato a qualunque processo manipolativo, sia esso volontario o inconsapevole. Le conseguenze, per chi ne è oggetto, non mutano: il manipolato è comunque nella rete, anche se chi ve l'ha messo ignora di avere fatto uso dello strumento o, per assurdo, non sa neppure che una rete, oltre a prender pesci, serve pure a imbrigliar persone.
Il concetto di manipolazione si direbbe pertinente anche per quei casi limite in cui colui che tesse la rete finisce paradossalmente lui stesso in trappola, affascinato a tal punto dalla seduzione in se stessa, da compiere atti del tutto autonomi - benché non consapevoli - di autoseduzione: una sorta di sdoppiamento, di diversione da sé, di autostrumentalizzazione, spiegabile in termini di finzione nei confronti di sé prima ancora che dell'altro.
Ma come ritenere il caso in cui il seduttore dichiara le proprie intenzioni all'altro?
Supponiamo che il baro avvisi l'avversario che da quel momento in poi inizierà a barare: una situazione paradossale ma possibile. L'altro probabilmente abbandonerà il gioco, ma potrebbe anche decidere di accettare la sfida e trovare interessante il mettere alla prova le capacità del baro di truccare le carte benché massimamente controllato. Se prima il gioco escludeva il barare, ora l'interesse riguarda la sfida, le capacità dell'uno di non farsi scoprire e le capacità dell'altro di controllare. Mentre prima il trucco alterava - adulterava - il gioco, ora proprio il trucco, essendone ammesse e dichiarate le intenzioni, onorerebbe la regola del nuovo gioco.
Nel quadro definitorio che andiamo qui precisando, gli ambiti possibili della manipolazione prevedono non trasparenza, occultamento. E in questo senso quindi, la seduzione dichiarata non rientrerebbe nelle forme della manipolazione.

Illusione e collusione
Il concetto di gioco porta a evocare due altri termini, cui spesso si può fare riferimento quando si parla di manipolazione. Penso a illusione e collusione. Credo che quasi sempre, per manipolare, vengano messi in campo comportamenti che ricadono nell'una o nell'altra delle due categorie, tanto che sarei portato a ritenere che si tratti delle due modalità fondamentali in cui si esprime qualunque processo manipolativo. Ma né illusione né collusione producono necessariamente manipolazione e il caso stesso del baro che dichiara di barare già suggeriva questa possibile conclusione.
I due termini richiedono pertanto qualche considerazione.

(1) - Vediamo il primo termine. Illudere sembra implicare l'immissione, nella realtà, di un elemento di alterazione delle regole normali di funzionamento. Il piano consueto muta e le procedure solitamente vigenti vengono modificate; anzi, il gioco nuovo proposto consiste proprio nel far saltare le regole esistenti.
Viene introdotta, nella realtà seria di tutti i giorni, una realtà inventata: compare una dimensione volutamente finta, anche se altrettanto concreta. L'ingresso della componente ludica - scherzosa, ingannevole - fa sembrare ciò che non è. Le conseguenze sono un vissuto - percezione e sentimento - mescolato: sembra ma non è; e del resto: è e invece sembra. L'illusionista rappresenta la figura classica di chi lavora in questa dimensione sfuggente: il suo spettacolo può produrre brividi di emozioni reali, nonostante tutti sappiano che la sua partner, nella scatola, non è stata trafìtta da nessuna delle venti lame che l'hanno attraversata. Il pubblico alla fine si è divertito, perché è stato al gioco. E stando al gioco, è stato giocato. L'attesa del pubblico non è stata né tradita né sviata: lo spettatore sapeva che avrebbe assistito a una prova di illusionismo, questo voleva e questo ha avuto. Se fascino e seduzione ci sono stati, questi erano fattori previsti e compresi nei patti: non hanno modificato le attese e gli obiettivi di chi aveva pagato il biglietto, ma anzi sono stati il necessario elemento di clima che ha facilitato il loro conseguimento. Insomma: essendo stata comprata un'illusione e un'illusione essendo stata portata a casa, nessuno è autorizzato a muovere accuse di manipolazione.

(2) - Colludere, attraverso il suo prefisso con, richiama un'alleanza. Ma le alleanze, se si fanno per, si fanno anche sempre contro. Il verbo quindi suggerisce un gioco ingannevole che uno o più soggetti fanno ai danni di qualcun altro. O di qualcosa. Restiamo per il momento all'accezione non manipolativa del termine e recuperiamo, più che il qualcuno, proprio il qualcosa contro cui l'alleanza potrebbe essere stretta. Riprenderemo il caso in seguito, quando caleremo questi concetti generali nelle problematiche di consulenza. Per ora possiamo ricorrere ad un esempio banale, riutilizzando l'atmosfera già sopra evocata dei giochi di carte.
Immaginiamo che due persone decidano di voler giocare a un gioco preciso, che prevede procedure chiare e consolidate: un gioco che ha un suo nome consacrato dalla tradizione e del quale quindi tutti coloro che si occupano di carte conoscono le regole. Supponiamo che i due tuttavia non abbiano intenzione di sottoporsi alla osservanza di tutte le regole previste, perché considerate troppo complesse, e decidano di giocare con altre regole, assai più semplici, concordate al momento. Se la decisione è stata assunta dai due apertamente e liberamente, nessuna obiezione, com'è ovvio, potrebbe essere loro mossa: le regole, nei giochi di carte come altrove, esistono anche per poter essere modificate. Ma ipotizziamo il caso in cui i due, richiesti da qualcuno che li sta osservando al tavolo di dichiarare il tipo di gioco da loro giocato, rispondano dando il nome del gioco di cui loro hanno modificato le regole. Allora, evidentemente, qualche obiezione potrebbe sorgere: se è legittimo che un gioco venga variato, non è legittimo che venga dato lo stesso nome a due giochi differenti. Farlo può significare produrre due tipi di inganno: uno verso chi è indotto alla confusione, perché gli viene fatta credere una cosa per l'altra - e qui potrebbe rientrare ancora una volta la manipolazione - e uno verso la cosa stessa, che viene fatta passare per un'altra. In quest'esempio, i due avrebbero colluso, ma nessuno dei due avrebbe manipolato l'altro: se mai, sarebbe il gioco tradizionale a essere manipolato, tradito dalla alleanza collusiva dei due giocatori.
Certo, il caso è futile: ma forse la futilità scompare se pensiamo — tanto per stare al campo nel quale molta consulenza si trova a muoversi - a tanta pseudoformazione erogata nelle aziende spacciata per formazione, e come tale magari registrata nei libri ufficiali dei fondi sociali più o meno europei, con l'accordo implicito di tutte le parti, committenti compresi.

Mistificazione di oggetti e di soggetti
Ricapitoliamo.
Abbiamo cercato di cogliere lo specifico semantico del termine manipolazione, anche attraverso il recupero di etimi di vocaboli che agiscono nell'intorno. Manipolazione, si è ribadito, è una forma di strumentalizzazione particolare, non è semplice influenzamento, né pura e aperta imposizione, bensì gioco ingannevole: in una parola, mistificazione.
La mistificazione può essere compiuta nei confronti sia di dati fisici di realtà che di persone.
Nel primo caso, il manipolato è toccato indirettamente: la strategia è quella di variare in maniera nascosta il terreno su cui il manipolato è spinto a esercitare la sua analisi, sì che sia indotto a tirare conclusioni logicamente conseguenti, ma false. La menzogna pura e semplice, la sottrazione alla conoscenza di alcuni fatti, la loro sottile confusione, la inavvertita ma intenzionale trasformazione di elementi soggettivi - pareri, opinioni, idee - in elementi pseudo-oggettivi possono rappresentare alcune tattiche specifiche.
Nel secondo caso, l'inquinamento è tutto giocato direttamente sulla relazione: obiettivo è modificare in senso favorevole al manipolante sentimenti e atteggiamenti del manipolato, senza che questi abbia modo di mantenere il controllo chiaro e critico del processo in corso. Anche qui le modalità particolari possono variare, ma sono tutte riconducibili a una attenzione falsa, e però venduta come sincera, manifestata ai bisogni e ai problemi dell'altro. Vengono colti e abilmente sfruttati i suoi lati deboli: ad esempio, alimentando il suo narcisismo, se è persona particolarmente sensibile alle gratificazioni, oppure fingendo sottomissione, se è persona che mostra marcata volontà di dominio. Insomma, attraverso l'attenta produzione e manutenzione di un certo clima, il manipolante finge una concessione di potere all'altro almeno uguale a quello da lui amministrato nella relazione, cosi inducendo nel manipolato quell'atteggiamento di morbida disponibilità che consente al manipolante di squilibrare nascostamente a suo vantaggio la relazione stessa.
Qualunque sia la modalità di mistificazione scelta, il processo manipolativo viene perciò a caratterizzarsi almeno per i seguenti punti:
(a) Inautenticità - Il rapporto nasce all'insegna della strumentalità: il manipolato non conta se non all'interno degli scopi nascosti che chi manipola intende perseguire.
(b) Asimmetria - Chi manipola ha in mano la relazione. Se è vero che talvolta anche il manipolato ha interesse a mantenere una situazione squilibrata in termini di potere - perché la simmetria costa quanto meno un po' di dura corresponsabilizzazione, mentre l'essere manipolati consente la comoda deresponsabilizzazione di chi è (o fa la) vittima -, è pur vero che il margine di potere del manipolato, quanto più la manipolazione riesce, è ridottissimo, talora nullo.
(c) Passivizzazione - Il manipolato è strutturalmente costretto a continuare a subire la relazione, perché il manipolante riesce nel suo intento se mantiene nel tempo la passività e l'inerzia dell'altro. Ma ciò condiziona anche chi manipola: che, per manipolare, si deve impedire di essere autentico ed è obbligato a recitare una parte. Il legame passivizza entrambi, oggettificando i soggetti e bloccandoli dentro comportamenti prescritti di reciproca falsificazione.
(d) Illibertà - Al manipolato è impedito di scegliere, perché è impedito di capire. Le sue capacità critiche sono deviate: se vengono esercitate, vengono applicate su dati fisici e psicologici non veri e le decisioni conseguenti hanno per attore un soggetto fittizio, essendo il manipolante, che ha approntato il contesto, il vero e unico decisore.

Manipolazione e consulenza
Il quadro problematico fin qui tratteggiato ci permette una lettura critica dei rapporti che la consulenza, e poi in particolare la consulenza di formazione, intrattiene con le organizzazioni per le quali presta i propri servizi.
Come si intuisce, il terreno della manipolazione, per chi si avventura in questi campi, è da sempre assai scivoloso. La possibilità di manipolare o di essere manipolati è costantemente presente. Il contesto di poteri, ruoli e persone nel quale ci si muove - committenti, utenti, consulenti - consente l'intreccio di situazioni assai complesse e dinamiche, in cui i soggetti attivi della possibile manipolazione possono facilmente essere, o diventare, nello stesso tempo, i soggetti passivi, giocati a loro insaputa proprio da coloro verso cui si vorrebbe dirigere la manipolazione. La chiarezza, per quanto cercata, non è mai garantita, anche perché, come si sa, essa non è uno stato, ma sempre un processo, da orientare e scoprire durante, più che da amministrare come una risorsa acquisita una volta per tutte.
Riguardo alla questione del manipolare, si possono svolgere considerazioni specifiche sia per la consulenza che per la formazione, che di essa costituisce un ambito particolare.

(1) La consulenza che manipola - Infinite sono ovviamente le modalità con cui una consulenza può proporsi in chiave manipolatoria nei confronti dell'organizzazione cliente. Tra l'altro, se riferiamo la nostra riflessione alla concreta realtà storica del nostro paese, lo sviluppo della consulenza di organizzazione è processo recente, tuttora in fase di maturazione. Sono praticamente poco più di due decenni che in Italia la professione si è affermata in maniera chiara e visibile e la cultura tuttora espressa, in termini di competenze specifiche ma soprattutto in chiave di profili di valori e di comportamenti professionali, deve probabilmente ancora rassodarsi e senz'altro generalizzarsi. L'ingresso continuo, anche turbolento negli ultimissimi anni, di molti nuovi attori, spesso improvvisatisi in una parte non sempre scelta per vocazione, ha creato una molteplicità di sensibilità, atteggiamenti e strategie di azione, che certo impattano pure sulla questione di cui stiamo trattando.
Al di là delle variegate scelte dei singoli soggetti - professionisti, micro e macrostrutture di consulenza -, spinti da una concorrenzialità sempre più intensa a mettere in campo stili competitivi non sempre corretti sul piano dell'etica, tanto nei confronti dei committenti quanto dei colleghi, almeno due mi sembrano essere i tratti possibili di una consulenza manipolativa.
Il primo rimanda al criterio guida fondamentale di evitare l'assunzione di autonomia del cliente (committente e utente), attraverso un'alimentazione, accurata e prolungata nel tempo, della sua dipendenza.
Il secondo, in qualche modo legato al precedente, finalizza ogni atto consulenziale a una politica sostanzialmente intrusiva: la consulenza viene pensata e proposta, cioè, come soggetto che si pone non accanto, bensì al posto dei cliente.
Il meccanismo facilitante, per entrambe le strategie, può essere la collusione. Da parte della consulenza, l'ovvia finalità è quella di mantenere e marcare la propria presenza all'interno della organizzazione cliente, inducendo man mano la nascita di pseudo-bisogni, per sfruttare le opportunità economiche che ne derivano. Mentre, da parte dell'organizzazione, l'intento, più o meno consapevole, è quello di evitare il costo che la crescita apparentemente auspicata comporta, con la conseguente responsabilizzazione in un processo di apprendimento, né delegabile né tanto meno acquistabile sul mercato dei prodotti preconfezionati. L'alleanza collusiva, naturalmente, può vedere coinvolte, oltre alla consulenza, l'alta committenza dell'organizzazione, oppure singoli sottosistemi, intenzionati a giocare, in difesa o contro, sia con altri sottosistemi che con il vertice stesso dell'organizzazione. Se la collusione comprende l'intera organizzazione, nessuna persona fisica esce manipolata; se il patto è fra parti dell'organizzazione e consulenza, lo stesso vertice può invece divenire oggetto di un gioco ingannevole, che mira a escluderlo o comunque a condizionarlo nelle sue scelte. In ogni caso, manipolato - nel senso di tradito - finisce per essere il concetto stesso di consulenza, piegato o ridotto a un fare che non rientra nella sua missione.
Impossibile, evidentemente, indicare i numerosi mezzi, e mezzucci, cui la consulenza può far ricorso per sviluppare la propria strategia di accampamento all'interno dell'organizzazione cliente, anche perché la natura e la scelta dipendono dal particolare livello di cultura - professionale, ma in questo caso pure di consulenza - maturata dal committente. Cito solo cinque esempi di possibili prassi.
(a) - Il primo, come subito si può intuire, è quello di sottolineare la propria indispensabilità: questo può essere perseguito sia enfatizzando le proprie competenze e i propri curricula, magari avvolgendo le une e gli altri in un'aura patinata di sapore esterofilo, sia drammatizzando, nelle analisi e nei check-up, la lettura e l'interpretazione dei punti deboli dell'organizzazione stessa.
(b) - Il secondo può essere rappresentato dal tentativo di minare la credibilità di alcune persone, o posizioni, chiave, al fine di sostituirle, in tutto o in parte, con il peso del proprio apporto consulenziale - e questo, ovviamente, dopo aver prestato la massima attenzione alla mappa aggiornata del potere organizzativo ed essersi precostituiti, di conseguenza, le necessarie alleanze politiche con la vera e forte committenza.
(c) - Un terzo modo è quello di centellinare la distribuzione di know-how, ossia fornire quella dose che basta al consulente per agire con le sue interfacce, ma che è insufficiente all'organizzazione per procedere da sola. Rientra in questo orientamento il non favorire l'avvio di processi di formazione, basati sull'acquisizione non soltanto di saper-come, ma soprattutto di saper-perché.
(d) - Altro mezzo può essere rappresentato dalla sollecitazione continua dei desideri di aggiornamento del cliente: il giusto obiettivo di evitare l'obsolescenza di sistemi, tecniche e prodotti e di investire in innovazione può essere usato infatti per spingere l'organizzazione a una gara sostanzialmente soltanto interna, e quindi di fatto autocompetitiva, in cui il nuovo per il nuovo diventa la molla esclusiva del cambiamento perseguito.
(e) - Infine, una modalità più difficile da evitare può essere data proprio dal non rifiuto di commesse spontaneamente offerte, ma che si ritiene l'organizzazione sia in grado di poter sviluppare autonomamente. Se il rapporto di consulenza è consolidato, e la sua natura appunto di corretto aiuto alla gestione non è stata deviata verso interventismi inappropriati, si è evidentemente creato un clima di stima professionale e fiducia reciproca, che può spingere l'organizzazione a far sconfinare il consulente. In questo caso, può succedere che il cliente si adagi nel rapporto abitudinario con la consulenza e cerchi di coinvolgerla anche in progetti che hanno magari la sola caratteristica di essere delicati - spinosi sul piano politico o dei rapporti interfunzionali -, ma che in effetti non esigerebbero, per essere portati a compimento, competenze o ruoli esterni particolari.

(2) La committenza che manipola - Si è accennato fin qui alla manipolazione attiva, esercitata dalla consulenza verso l'organizzazione cliente. Restano da toccare, sia pur di sfuggita, i problemi sollevati dall'altro polo, essendo evidentemente possibile che anche la consulenza venga manipolata.
Distinguiamo innanzitutto due situazioni: quella in cui la consulenza è al corrente della manipolazione cui viene sottoposta e quella in cui ne è inconsapevole oggetto.
In base alle definizioni date all'inizio di queste note, nel primo caso parlerei più correttamente di strumentalizzazione, ma al di là dei nominalismi, entrambe le ipotesi integrano episodi di consulenza adulterata, purtroppo non rari.
Una prima ragione di un simile utilizzo manipolatorio della consulenza è evidente: l'acquisizione o la difesa, da parte del committente, di poteri e vantaggi personali. Domanda e offerta vengono negoziate all'interno di uno scenario fittizio, predisposto dal committente, nel quale gli argomenti in gioco solo apparentemente riguardano gli interessi dell'organizzazione, mentre in realtà quanto il committente ricerca sono nuovi modi per favorire il proprio miglioramento e sviluppo. E ancora una volta torna la finzione come elemento essenziale della manipolazione.
Infine, una seconda ragione può essere rappresentata dalla volontà di introdurre, nel clima dell'organizzazione, un facile diversivo, che ad esempio lenisca preoccupazioni circa il futuro, o addirittura accenda interessi strumentali, destinati ad essere presto abbandonati. Decisioni strategiche particolarmente gravi per la sopravvivenza dell'organizzazione possono indurre politiche di tal genere: il singolo consulente le può scoprire a posteriori - e in tal caso può solo ammettere di esser stato manipolato -, oppure può partecipare, più o meno ampiamente, a elaborarle - e in tal caso ha deciso di farsi strumento di piani altrui e di venir meno a quella posizione di terzietà che non è neutralità, ma tutela e garanzia della propria autonomia professionale.

Manipolazione e formazione
L'avvicinamento dei due termini, manipolazione e formazione, evoca una prassi contaminata. E del resto è nel concetto stesso di formazione, come dare forma che è presente un rischio naturale di ritenersi onnipotenti.
Chi si occupa di formazione da più tempo - in Italia, i primi sensibili e massicci fermenti formativi che hanno toccato nelle organizzazioni manager, quadri e professional risalgono agli anni Sessanta - sa dei peccati giovanili di presunzione, commessi spesso in buona fede ma con testarda determinatezza: li guidava l'assoluto convincimento che la formazione potesse, e quindi dovesse, cambiare uomini e organizzazioni, provvedendo a diffondere in modo rapido e facile nuovi benesseri psicologici e sociali, peraltro subito automaticamente spendibili o convertibili anche sul mercato dell'economia.
L'eden - com'era ovvio, e probabilmente per fortuna - non si è realizzato, ma la sua utopia non è stata sterile, perché ha prodotto almeno due fatti.
Il primo, positivo, è stata l'attestazione - oggi netta, massiccia - della formazione stessa: la sua importanza per la vita, e soprattutto per lo sviluppo, delle organizzazioni è ormai fuori dubbio; se ne può discutere - e se ne discute - la qualità, non più la ragione.
La seconda conseguenza è stata, almeno in alcune fasi di diffusione del discorso formativo, un'interpretazione forte, sul piano operativo, proprio del concetto del dare/orma, che ha condotto a prassi spesso ideologiche, talora inflittive- si fa formazione perché s'ha da fare, anche a dispetto della volontà dell'interessato -, talora collusive.
Quest'ultimo fenomeno continua a verificarsi anche in questi anni, in cui si sono dissipate molte delle spinte, più o meno inconsapevoli, che caratterizzarono il missionarismo della prima fase della professione; e ciò a segnare il pericolo evidentemente connaturalo all'etimologia ricordata. In realtà, se il complemento oggetto del formare resta un essere umano, la caduta manipolativa è molto facile. Il vissuto del dare forma sembra essere univoco, ma una lettura alternativa resta possibile, e sarebbe l'unica forse che potrebbe, se non garantire, certo ridurre il rischio di impositività o manipolatività. Basterebbe pensare che c'è una realtà, più che un soggetto, da formare - da modellare, da leggere - e che forse, se il formatore ha valori e strumenti appropriati, su questa può essere esercitata competenza e consulenza. Ma su ciò torneremo.
Possiamo ricondurre gli inganni possibili della formazione - la manipolazione che la formazione può compiere su se stessa e quella che può esercitare su coloro cui dovrebbe render servizio - sostanzialmente a due categorie: la prima è appunto quella di una formazione collusiva, la seconda - forzando l'italiano, ma per rifare il verso alla prima - potremmo chiamarla illusiva.

(1) - Non occorre probabilmente spendere molte parole per ricordare in cosa sia consistita, o possa tuttora consistere, una modalità formativa di tipo collusivo.
Distinguiamo innanzitutto i due potenziali alleati della formazione collusiva: la committenza, contro i formandi, e i formandi, contro la committenza.
Nella prima ipotesi, la formazione si snatura, cedendo il passo, ad esempio, ad azioni di propaganda - istituzionale o di marketing personale del committente - o di mero controllo sociale - formazione come luogo per la valutazione, nascosta e metodologicamente approssimativa, delle prestazioni o del potenziale di carriera dei formandi -.
Nel secondo caso, un esempio più volte rintracciabile nella storia di ieri è dato da una formazione di tipo agitatorio, che utilizza il momento caldo dell'aula per raccogliere frustrazioni e attese più o meno anti-istituzionali o anti-gerarchiche e per fornire stimoli propagandistici e spinte ribellistiche sostenute da improbabili visioni di rosei cambiamenti dal basso.

(2) - Più interessante forse è il discorso riguardante la modalità illusiva, anche perché questa mi pare costituire - come ieri insieme con la precedente, ma certo oggi in maniera dominante - il nodo della problematica attuale della formazione.
Mi sembra che le illusioni che in questo momento vengono offerte e spesso golosamente comprate sul mercato della formazione, siano almeno di tre tipi.
(a) - La prima è quella prescrittivo-tecnicistica, la seconda si affida alle nuove tecnologie e la terza coltiva le atmosfere estetizzanti. Vediamole singolarmente, per cenni brevi e volutamente radicalizzati.
L'illusione tecnicistica continua a confondere forma con formule. Sfrutta l'ansia diffusa prodotta dalla difficoltà di tutti noi di convivere in contesti sempre più instabili e complessi - privi ormai di norme valide in assoluto ma gestibili solo con regole ogni volta ad hoc; nei quali la logica delle probabilità ha definitivamente preso il sopravvento sull'antica logica della certezza - e vende come nuovi, appena un po' riverniciati, vecchi catechismi comportamentali, rivelatisi di improbabile impiego persino in epoche passate. Nascosto dietro il paravento delle richieste emotive del formando - di fatto sempre più oggi portato a coincidere con la categoria commerciale del cliente/consumatore, giustamente cara alle rilevazioni Nielsen o Auditel -, questo indirizzo giustifica la propria collusione teorizzando che è finita l'epoca degli ideologismi e delle astrazioni. La concretezza, si ripete, impone tecniche, specifiche comportamentali, ricette di immediato e puntuale utilizzo. E tutto ciò che fuoriesce dai manuali di pronto intervento è catalogato come fumo, residuo della vecchia formazione accusata di aver soltanto sognato, sui laghi dei gruppi di autocoscienza, manager e uomini nuovi, avendo peraltro lasciato quelli esistenti in carne e ossa forse un po' più consapevoli, ma per il resto vecchi e incompetenti come prima.
(b) - Il secondo filone punta sull'innovazione tecnologica: audiovisivi, computer ed effetti speciali, utilissimi sussidi per ravvivare e affinare talune stanche metodologie didattiche attive, divengono in pratica contenuti. Qui la collusione è sottile: si promette un apprendimento di-vertente, supportato dall'impiego di gadget sofisticati e aggiornati, che ne spettacolarizzano il processo e ne riducono il tradizionale impegno psicofisico. La fatica del partecipare si allenta e al suo posto compare, in dosi più o meno massicce, il più comodo ed esterno vedere: non più all'insegna del «ho partecipato a un corso», bensì del «ho visto un corso».
(c) - Infine, la via estetizzante, che enfatizza gli aspetti di atmosfera e di relazione, propone una formazione dolce, di piacevole intrattenimento, in cui i contenuti di lavoro si alternino con momenti di socializzazione e di degustazione pittorica o musicale - la visita a qualche villa palladiana o il concerto mozartiano -. La giustissima preoccupazione di unire il buono e l'utile formativo con il bello - nessuno può negare che un certo contesto favorisca l'apprendimento - rischia qui di prendere il sopravvento: e la formazione, colludendo con i desideri di svago, divertimento e partecipazione morbidamente rilassata dei formandi, cambia di fatto setting e  natura e cede alla logica del''evento o della convention emozionale.

Naturalmente, le tre modalità sopra accennate non nascono per caso. La necessità di ridare smalto e incisività a molta formazione ripetitiva, rituale, ridotta a pacchetti di lucidi ormai stinti nei contenuti e nella forma o magari affidata a qualche ormai stanco showman dell'aula alla sua ennesima apparizione, è reale e non può essere negata. Ben vengano quindi approcci, metodi e strumenti che costringano i formatori ad agganciarsi maggiormente alla realtà dei partecipanti e li obblighino a trovare contenuti e linguaggio che davvero siano al servizio di chi deve apprendere. Inoltre, va ammesso che talvolta la formazione si è proposta in forme grigie, dentro strutture o contesti fisici deprimenti, e che i suoi meccanismi di regolazione hanno risentito di logiche, più o meno intenzionali, di tipo sadico-sacrificale: specie all'estero - dove i corsi sono sempre total immersion -, ma talvolta anche in Italia, i tempi per la socializzazione e la digestione didattica sono compressi, quasi un seminario dovesse sempre essere un corso di sopravvivenza psicofisica. Ciò che però caratterizza l'illusorietà dei tre approcci è il loro taglio che, al di là del dichiarato, nei fatti tende a estremizzare questi aspetti, fornendo cosi al partecipante un apprendimento più apparente - o addirittura appariscente, a giudicare dall'insieme di taluni lustrini e luccichii - che reale.

L'opzione della de-lusione
Come si esce da una formazione manipolante o manipolata? Credo che ogni riflessione debba muovere da un assunto: si smette la manipolazione se si smette di giocare. Dunque, se si comincia, una volta ancora etimologicamente, a de-ludere.
Il formando, si è già detto, non è un cliente, né il formatore è un intrattenitore, obbligato al massimo del gradimento possibile. E del resto, la politica del cliente che ha sempre ragione - e che va assecondato, circuito - già ha, e avrà sempre più in futuro, fiato corto. Esiste oggi, oggettivamente, una formazione internamente spaccata: da una parte, sempre più insinuanti, premono spinte e logiche commerciali non molto dissimili da quelle che insistono su saponette e profumi; dall'altra, talvolta debole ma sempre vivo, resta un richiamo ineludibile alla natura intrinseca della specificità della professione e del ruolo del far apprendere. Certo, circolano e sono forse anche in crescita umori e desideri che portano a pretendere apprendimento per il solo fatto che si mette mano al portafogli - che tra l'altro, in genere, non è il proprio ma quello dell'organizzazione di appartenenza -. Ma tra i compiti di chi si propone formatore vi è anche quello di insegnare il rifiuto: rinunciare alla collusione, denunciare il pericolo di illusione e testimoniare, deludendo l'attesa, che apprendimento è anche costo non monetario, processo e non atto, impegno e non solo emozione. Recuperare alla coscienza la divaricazione, alla quale di fatto la formazione mi sembra essere oggi sottoposta, ed elaborarne il vissuto può essere la precondizione per agire il problema, facendo venir meno il pericolo di esserne gestiti.
Più in dettaglio, e anche a mo' di rinforzo, propongo tre questioni degne di attenzione.

(1) - La prima àncora la formazione al setting che la contraddistingue. Quando diciamo che tutto è formazione, diciamo il vero, ma è un vero che non ci aiuta a cogliere l'altro dato, altrettanto vero, che traccia un distinguo, chiaro a tutti, fra ciò che possiamo imparare sul tram, in attesa della nostra fermata, dal breve scambio di parole con uno sconosciuto in vena di amicizia o guardando alla televisione un documentario zoologico di Piero Angela e ciò che invece possiamo imparare dentro un'aula, da docenti e colleghi di un seminario nel quale abbiamo deciso di impegnarci con testa e cuore. Certo, si apprende anche all'interno di una convention, sovrabbondante di musiche e visioni, ma far coincidere comunicazione con formazione non produce sinergie, piuttosto fa perdere le peculiarità di natura, finalità e linguaggio sia dell'uno che dell'altro mezzo.

(2) - Una seconda considerazione, ribadendo l'impegno a una vocazione pedagogica di chi ha scelto di operare nel campo della formazione, richiama allo sforzo di non rinunciare a valori e modelli, cui far riferimento e da trasmettere nell'azione didattica. Nessun ideologismo, naturalmente: mantenere ben ferma la distinzione fra formazione e propaganda deve restare preoccupazione costante di chi si muove nelle aule di scuole e di aziende. Ma, accanto alle tecniche e agli strumenti - lasciamoci pure contaminare, per questo, dalla cultura anglosassone, che ci costringe all'approccio empirico e ci lega al terreno del che fare concreto, fuori dai voli dei discorsi sempre a monte -, non dimentichiamo di obbligare noi e i formandi a perseguire e accettare i tempi della problematizzazione e della messa in discussione: a ricercare e provare il gusto della riflessione più generale, che forse non dà la piccola risposta da applicare subito - l'attesa immediata di tutti -, ma magari è in grado, domani, di fare scattare una comprensione inaspettata, da cui trarre tante altre risposte probabilmente non così urgenti, però fondamentali. Per far questo, gli strumenti e le ricette non servono; piuttosto aiutano il valore di una formazione che si spende a fianco del formando per un apprendimento plurale e modelli, da costruire usare gettare e ricostruire, che contribuiscono a far leggere e sistematizzare la realtà.

(3) - Infine, una considerazione attorno al concetto di rigore. Una formazione che rinuncia a manipolare e a essere manipolata è una formazione che vuol fare sul serio: dunque che ha metodologie e una deontologia alle quali rifarsi. Ciò non significa né cilici né depressività. Eros e ludus non mi pare debbano cozzare con l'osservanza di regole - funzionali e non burocratiche, autonomamente date o comunque condivise - che consentano il raggiungimento di un obiettivo comunemente voluto. Non c'è apprendimento, del resto, senza amore - interesse, passione, sentimento positivo di apertura all'oggetto e al contesto - e voglia di di-vertimento - nel senso di 'gusto per l'andare qui e là', il 'volgersi via', il 'cambiare', il pensare 'eretico-ed-erratico' -. Nessuno ha stabilito che il formarsi debba prevedere talune mortificazioni cui la scuola, e l'educazione familiare talvolta, specie in passato, ci avevano abituato. Tuttavia, nessuno mi pare possa altrettanto fondatamente sostenere che l'ad-prendere non implichi un costo, quanto meno di moto a luogo; e questo se non altro da quando l'essere umano ha deciso, proprio per potersi affermare come tale, di farsi cacciare dal giardino incontaminato del mito. Ma rigore non significa solo essere disposti a intraprendere il cammino. Implica pure che tale sforzo sia costante, in ogni fase del processo formativo - dall'analisi della richiesta alla verifica del bisogno, dalla progettazione alla erogazione e al monitoraggio a distanza dei risultati ottenuti - di aderenza alle necessità vere dell'organizzazione e degli individui: il che ha come corollario evidente la conquista di una professionalità mai data per acquisita completamente e sempre verificata nei fatti, con gli interlocutori oltre che con se stessi.

In generale: per una strategia non-manipolativa
Al di là delle singole specifiche ricette, una regola fondamentale che qualunque cuoco sa di dover seguire anche nell'allestimento del più semplice piatto, quanto più è esigente il palato del suo ospite, è quella di impiegare ingredienti genuini. E principio che vale a tavola e vale ancor più nella vita di relazione. La genuinità - la trasparenza di attese, finalità, comportamenti -, se non è una ricetta, è però un possibile criterio pilota. Volendolo dettagliare, possiamo probabilmente focalizzare almeno tre punti.

(1) - Il primo rimanda all'impegno - scontato, ma non sempre atteso - di dichiarare anticipatamente i propri obiettivi: a se stessi, innanzitutto - l'inconsapevolezza e la superficialità con cui spesso ci muoviamo tra un rapporto e l'altro rendono la sottolineatura niente affatto scontata - e a tutti coloro con cui entriamo in contatto, coinvolgendoli nelle nostre iniziative. Si tratta di definire con precisione cosa intendiamo raggiungere, cosa ci aspettiamo dalla relazione che stiamo per instaurare, quale contributo, nella specifica situazione, riteniamo di poter offrire o di dover chiedere all'altro, come e con quali tempi pensiamo di muoverci per ottenere gli obiettivi che ci proponiamo.
Ovviamente, una simile modalità implica l'osservanza di due condizioni: una maggiore razionalità e sistematicità di approccio alla realtà, e all'altro in particolare - e cioè: vivere meno in automatico di come spesso ci succede - e la volontà di aprire, in spirito paritario, un contratto con l'altra parte, in cui, alla luce del sole e senza furbizie nascoste, si cerchino insieme, aiutandosi reciprocamente, i vincoli e le possibilità, le aree di dissenso e le ragioni di consenso. Nessun francescanesimo, naturalmente - e neppure il suo peggiore succedaneo, tanto diffuso nel costume italiano, costituito da quel vogliamoci-bene che mentre affila il coltello sotto la tovaglia predispone in tavola i soliti tarallucci-e-vino -. Bensì, semplicemente, l'attuazione di uno stile di negoziazione più intelligente («che sa cogliere i nessi») di quello tradizionale, in cui la controparte, cancellata anche come termine dal vocabolario, venga integrata, come con-parte, in una relazione non più di guerra, ma di confronto. Insomma, se mai un egoismo meno ottuso, più aperto alle esigenze altrui e dunque più probabilmente e utilmente realizzabile.

(2) - Un secondo punto ci ricorda di presentare la realtà per come è e non per come ci piacerebbe che fosse. Sappiamo tutti che l'oggettività ci sfugge, vanificata dai filtri ideologici, culturali, di personalità individuale. Ma la condanna, se vogliamo incrementare le probabilità di più felicemente convivere - e non di contro-vivere -, è quella di ricercarne costantemente l'approssimazione. Separare il nostro presunto o auspicato dall'effettivo può essere il modo non soltanto per capire meglio noi stessi cosa e come fare, ma soprattutto per favorire quelle comprensioni reciproche che sole consentono, essendo tutti noi costretti generalmente a fare insieme, il successo del fare stesso.
E' un'operazione, questa, che evitiamo molte volte di compiere per varie ragioni: per timore - abbiamo paura della reazione dell'altro -; per calcolo - puntiamo sull'asimmetria di rapporto, sperando che l'altro non sappia fare analisi e tirare conseguenze -; per insipienza - noi stessi non sappiamo cosa vogliamo o come stanno le cose -.
Il risultato non cambia: l'altro, cui abbiamo presentato le nostre fantasie anziché la realtà, finisce in una rete, di cui soltanto in ritardo scopre l'esistenza. E se il gioco della manipolazione, una volta di più, si è avverato, non è affatto detto che i vantaggi ottenuti siano quelli attesi o che domani, ad esempio, appena il pendolo - com'è naturale - si metterà a oscillare in direzione opposta, non ci verranno vanificati da una nuova manipolazione, stavolta a noi contraria.

(3) - I punti sopra accennati si basano su un prerequisito implicito: la ricerca, per le parti in gioco, di un rapporto inter-soggettivo. Certo, nessuno può esistere, in qualunque aggregato sociale ma in particolare nel nostro, senza indossare un ruolo. Ma lo sforzo di far affiorare quanto più possibile, sotto i ruoli ricoperti, l'anima dei soggetti è un ottimo antidoto alla strumentalizzazione reciproca. Il problema è impedire che le relazioni siano solo una procedura agita fra funzionari («persone cui è stata assegnata una funzione») - i quali hanno oggetti, tutt'al più trasformati in risorse, da gestire -, e non anche un dia-logo fra individui - i quali hanno teste e cuori, dialetticamente, da condividere -.
Inter-soggettività è parola densa e calda di umanità: richiama consapevolezze, poteri, controlli e possibilità simmetrici; e poi il mettere e rimettere costantemente in discussione sia se stessi che la relazione instaurata con l'altro. La manipolazione è lontana da questo orizzonte, perché dove essa arriva, muore la comunicazione: cede la disponibilità aperta a comprendersi, e dunque a mettere in comune, e si blocca con ciò qualunque possibilità di essere se stessi, individualmente, nonché di cambiarsi davvero.

Le indicazioni appena accennate presuppongono la volontà di perseguire una strategia anti-manipolativa. Mi pare tuttavia che nei fatti, sia nelle relazioni di lavoro che nei rapporti sociali, l'opzione della de-lusione non sia ancora del tutto maturata, almeno non in maniera robusta e diffusa. Su questo tema come su altri, abbondano come sempre i proclami e scarseggiano le coerenze. Il valore della chiarezza resta da anni ai primissimi posti della hit parade delle belle intenzioni: tutti dichiarano di volerlo perseguire in seminari, convegni, interviste televisive, che troppo somigliano a quelle conversazioni salottiere in cui si disquisisce futilmente di come dovrebbe andare il mondo. In realtà, se siamo sempre disponibili a pagare monetariamente i costi dei nostri desideri, facciamo fatica a saldare i dazi dei nostri veri piccoli cambiamenti, che esigono, per essere realizzati, non soldi ma impegno personale. L'ambiguità non piace in pubblico, ma continua a essere scelta nel chiuso dei nostri atti. Ai vantaggi del manipolare - illudere, sedurre - non si rinuncia facilmente, sottilmente sospinti - illusi, sedotti - da un tam-tam avvolgente e insistito di consigli per gli acquisti, ma pure talvolta da ammaestramenti familiari.
Anche l'essere manipolati conviene: non si deve andare a vedere. E dunque, potendo continuare a giocare, non si interrompe la finzione. Così l'incommensurabile guadagno di non doversi responsabilizzare: di lasciare ad altri - sì, anche al cattivo che ci manipola - il compito di agire, e di riservare a noi il piacere, non importa se più del suddito che del cittadino, di svalutare, protestare e recitare la dolce parte della vittima.
L'imbocco di strade differenti presuppone comportamenti di presa di consapevolezza che paiono essere incongrui con una società che sopravvive, spesso, in una sorta di maniacalità continua. L'accettazione anche di posizioni depressive è meccanismo di salute e di sviluppo, ed è precondizione indispensabile perché una riflessione genuina - scomoda e dunque anche per questo fertile - possa innescare un cambiamento.
Tuttavia, il futuro non è chiuso. I tempi - che poi altro non sono che le richieste più profonde di noi tutti, che maturano e vengono avanti - spingeranno sempre più alle autoconsapevolezze e alle coerenze. Non ci si chiede certo di aspirare alla santità: solo di sapere un po' di più quel che facciamo e le conseguenze dei nostri atti. Il gioco - sia quello pulito che quello sporco - fa parte della vita, e tutti noi siamo un po' bari e un po' onesti. Tuttavia, i giochi sono tanti e si dovrebbe poter decidere - tutti e non solo qualcuno - non semplicemente quando e a cosa giocare, ma anche quanto giocare. Allora potremmo optare per la de-lusione: concludendo che in fondo, almeno in alcuni casi, c'è più gusto a contenere, se non addirittura a smettere, il gioco in corso. Perché, quando non siamo al tavolo verde, non è affatto vero che i giochi sono fatti e non si fanno più: siamo noi, se lo vogliamo, che decidiamo - e continuiamo a decidere - se, cosa, come, quando e quanto giocare.

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* F. Prandstraller, La formazione come condizione, in «For», n. 17-18, giugno 1992.
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*** Massimo Ferrario, Consulenza, formazione e dintorni: dalla manipolazione alla delusione, in Valeria Chiotetto (a cura) Manipolazione, Edizioni Anabasi, ottobre 1993.


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