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sabato 30 maggio 2015

#FAVOLE & RACCONTI / L'apprendimento (M. Ferrario)

Come tutti gli anni, appena finita la scuola, Piccolo Uomo era corso dal Grande Vecchio delle Montagne, per passare con lui buona parte delle vacanze estive. 

Attendeva questo momento dall’estate precedente. I suoi genitori, un tempo, erano un po’ gelosi del suo affetto esclusivo per l’uomo della montagna. Poi però avevano capito e avevano imparato a godere con lui dell’amicizia, vera e profonda, che lo legava al Grande Vecchio. 
Piccolo Uomo, su tra le cime innevate dei monti e nei boschi profumati di muschio, aveva scoperto di poter essere felice: di giorno, apprendeva da Grande Vecchio i segreti della natura – il linguaggio delle pietre, le voci delle piante, i sentimenti degli animali; e la sera, nella capanna, davanti al fuoco del camino, ascoltava rapito la storia del mondo – i racconti fantastici, e sempre veri, dell’uomo e delle cose.

Da due giorni, tuttavia, Piccolo Uomo era taciturno. Grande Vecchio sentiva che il suo silenzio era gravido di qualche preoccupazione e perciò lo rispettava, manifestando attenzione e discrezione insieme. Immaginava che prima o poi Piccolo Uomo si sarebbe confidato, ma desiderava che fosse lui a scegliere tempi e modi.
Finalmente, Piccolo Uomo si aprì. 

«Ho un problema, Grande Vecchio, ma non so da dove cominciare». 
«Se credi che posso esserti di aiuto, Piccolo Uomo, ti ascolto. Quando il cuore pesa, l’inizio giusto è sempre quello da cui si parte». 
«Sono addolorato. Un amico ha tradito la mia fiducia: gli volevo bene, ora vorrei non averlo mai conosciuto». 
«Il tuo dolore è forte se ti spinge a dire cose tanto gravi». 
«Infatti, Grande Vecchio. E’ dolore e rabbia. E non solo perché credevo questo mio amico diverso, ma perché il suo comportamento continua a offendere una delle persone che io amo di più». 
«Me ne vuoi parlare, Piccolo Uomo?». 
«Temo di dovere, Grande Vecchio, anche perché ti riguarda. Ma non vorrei, così, ferire anche te». 
«Non capisco, Piccolo Uomo. Che c’entro io con il tuo amico?». 
«Ricordi Fiore-che-sboccia?». 
«Certo, ne ho un ricordo intenso e dolce. Un giovane forte, ambizioso, determinato. E con una fantasia sconfinata come il cielo. Volle essere mio allievo e, nonostante le mie resistenze, ci riuscì. Trascorse con me cinque estati. Aveva deciso di diventare un grande esperto di karate: anzi, il più grande di tutti i tempi, come gli suggeriva il suo sogno. Gli ho voluto bene. E’ stato un ottimo allievo: attento, paziente, coscienzioso, impegnato. Gli ho trasmesso tutto quello che sapevo. Quando ho capito che non avevo più nulla da insegnargli, gli ho detto che avrebbe dovuto proseguire da solo. Mi chiese il segreto dell’arte del karate. Gli risposi che anch’io lo cercavo e che non avrebbe mai finito di scoprirlo: con l’esercizio continuo, ma soprattutto ascoltando l’intuito e non dimenticando mai di onorare l’avversario».
«Temo sarai deluso, Grande Vecchio. Ma oggi Fiore-che-sboccia non è più lui. E’ cambiato profondamente. Lui stesso, del resto, ha voluto sottolineare il suo mutamento abbandonando il vecchio nome: ora va in giro con lo sguardo altezzoso e si fa chiamare Forza-d’acciaio».
«Succede, Piccolo Uomo, specie quando i capelli non sono di neve come i miei. La forza è dei giovani, insieme con l’esuberanza e una certa qual spavalderia. E del resto, chi ha qualità, spesso è tentato di esibirle. Fiore-che-sboccia ha scoperto la forza e forse se ne è sorpreso lui stesso: la mostra, un po’ anche la grida, per convincersi di possederla. Forse un giorno comprenderà che forte non è chi lo dice né chi crede di possedere la forza,  ma chi alla forza si abbandona e si lascia essere».
«Ma non c’è solo superbia, Grande Vecchio. E’ che io lo credevo buono…».
«Ti ha fatto del male?».
«Peggio. Sta sparlando di te. Dice che sì, tu sei stato suo maestro, ma ormai lui è in grado di batterti quando vuole. Che tu sei vecchio, appesantito dagli anni, e che ormai è lui l’unico vero maestro di karate. E molti giovani gli vanno dietro e ridono delle sue battute su di te: cominciano a credere che la sua forza sia invincibile e lui diventa sempre più pieno di sé».
«E’ questo il tuo problema, Piccolo Uomo?».
«Sì, Grande Vecchio. Non sopporto che ti manchino di rispetto».
«Comprendo il tuo dispiacere, Piccolo Uomo, e soprattutto sono commosso, ancora una volta, dall’affetto che mi manifesti. Ma ti prego, almeno per quanto mi riguarda, non ti addolorare: non lasciarti ferire dalle parole che giù in città vengono messe in giro sul mio conto. Non dicono che il vero: la mia barba bianca, il mio passo più corto, i miei muscoli allentati segnano gli anni del mio corpo. E’ la vecchiaia: né merito né colpa. E dicono il vero anche affermando che non sono maestro di karate: mi attribuisce questo titolo chi ancora non riconosce, come unico vero maestro di karate, soltanto appunto il karate».
«Ma perché Fiore-che-sboccia è diventato Forza-d’acciaio? Eppure ti era affezionato…».
«Rassicurati: Fiore-che-sboccia non è 'diventato' Forza-d’acciaio».
«Ma lo va ripetendo a tutti: dice “Io non sono più Fiore-che-sboccia. Ormai mi dovete chiamare Forza-d’acciaio”».
«Certo, Forza-d’acciaio è uno dei fiori oggi sbocciati. Ma altri fiori sicuramente verranno. O potranno venire. Se lo vorrà Fiore-che-sboccia. E se tutti gli altri che incontrano oggi Forza-d’acciaio non lo costringeranno ad essere per sempre Forza-d’acciaio».
«Fatico a seguirti, Grande Vecchio. Come altre volte, sento una verità nelle tue parole, ma ho difficoltà a 'vederla': a capirla».
«Qualche volta, sono gli occhi del cuore a vedere ciò che gli occhi della testa non vedono. Ma spesso è sufficiente attendere: la testa è più pesante del cuore e per questo cammina più lentamente».
«C’è ancora qualcosa, tuttavia, Grande Vecchio, che ti debbo dire. Forza-d’acciaio mi ha fatto promettere che te l’avrei detto e io debbo mantenere la promessa. Anche se me ne vergogno… non vorrei…».
«Non temere, Piccolo Uomo. Sono pronto. Le occasioni della vita si presentano in molte forme: e le sfide sono una di queste. L’animo sereno non le raccoglie, ma le accoglie».
«Ma… allora... hai già capito...!».
«Forza-d’acciaio vuole misurarsi con me in un incontro pubblico di karate…».
«Infatti, Grande Vecchio. E io non sapevo come dirtelo… mi sembrava… non so… come di insultarti…».
«Scendi in città, Piccolo Uomo. E riferisci a Forza-d’acciaio che incontrerò con piacere e curiosità Fiore-che-sboccia in una gara nobile e leale di una delle più alte e antiche arti marziali. Portagli il mio affetto e digli che onorerò il suo talento».
* * *
Il giorno del combattimento fu preannunciato con squilli di trombe e colpi di tamburo in tutto il paese. 
La gente accorse da ogni angolo: dai villaggi, dai monti, dal mare. Tutti erano desiderosi di assistere alla sfida tra il Grande Vecchio della Montagna, che aveva abbandonato per un giorno le cime dei ghiacciai, e Forza-d’acciaio, che si era ormai imposto come uno dei migliori combattenti di karate di tutti i tempi. 

L’incontro ebbe inizio. 

Gli spettatori osservavano in silenzio, come se si stesse adempiendo una funzione sacra. 
I giovani, naturalmente, parteggiavano per Forza-d’acciaio, mentre gli anziani per Grande Vecchio: tutti trattenevano il fiato e guardavano ammirati le mosse dei due. Entrambi, infatti, manifestavano talento e abilità al massimo livello. 
In Grande Vecchio si apprezzava l’armonia, la rotondità, la leggerezza dei movimenti, pure netti e precisi: una danza. In Forza-d’acciaio si ammirava la potenza, il rigore, la tensione: una concentrazione perfetta. 

Il combattimento procedeva in equilibrio. Gli anziani speravano di dimostrare che la forza è nell’agilità mentale, che la resistenza è nella flessibilità, che la giovinezza è nel governo naturale e spontaneo del corpo. I giovani erano convinti che la potenza fosse nei muscoli sodi e guizzanti e in un fisico temprato da allenamenti continui.
Più il combattimento avanzava e più Grande Vecchio sembrava compiere le sue mosse in assenza di sforzo e tensione: i suoi gesti nascevano da sé, integrati, completi, perfetti. Nessuna energia veniva dispersa, alla ricerca studiata dell’attacco o della difesa, ma anche la forza del giovane era utilizzata come risorsa e occasione per nuove mosse. 
Il giovane, invece, esibiva un impegno sempre più concentrato: la sua volontà di vittoria traspariva da ogni movimento, la sua attenzione a cogliere in fallo l’avversario era spasmodica, l’attesa era tutta per la mossa giusta, quella che avrebbe potuto far vincere la partita.

Il combattimento sembrava non finire mai. Tutti erano consci che qualcosa di solenne stava per compiersi.
E infatti, ad un certo punto, tutto si sciolse: Grande Vecchio sorprende Forza-d’acciaio con una mossa imprevista, imprevedibile, del tutto nuova. E vince l’incontro. 

La gente si lascia andare ad un applauso liberatorio. Tutti, anche i giovani che parteggiavano per Forza-d’acciaio, sono stupiti ed estasiati. 

Grande Vecchio, concluso l’incontro, si inchina a Forza-d’acciaio e Forza-d’acciaio ricambia l’inchino, riconoscendo la superiorità di Grande Vecchio. 
Poi il giovane, visibilmente contrariato, grida a Grande Vecchio la sua protesta: 
«Ti avevo scelto come maestro. Quando mi hai congedato, mi dicesti che mi avevi insegnato tutto quello che sapevi». 
«Infatti», rispose Grande Vecchio. 
«Però quest’ultima mossa non me l’hai mai mostrata». 

Grande Vecchio annuisce. Sta per rispondere, ma Forza-d’acciaio è già scappato via, tra la folla che sembra non vederlo e preme per avvicinarsi a Grande Vecchio. 
Accanto a Grande Vecchio si è fatto subito Piccolo Uomo. 
«Sono contento», sospira Piccolo Uomo, finalmente rilassato. «Forza-d’acciaio ha avuto quel che si merita. Ora, forse, rifletterà…». 
«Mi spiace se ne sia andato. Se gli avessi potuto rispondere, forse gli avrei dato qualche elemento in più per riflettere. Anzi, ti prego, Piccolo Uomo, quando le nubi scure avranno abbandonato il suo volto, riferiscigli quello che volevo dirgli». 
«E’ arrabbiato perché tu non gli hai insegnato la mossa segreta». 
«Ha ragione. Non gliel’ho insegnata».
«Hai fatto bene».
«No. E’ che non potevo».
«Non potevi, Grande Vecchio?».
«La mossa segreta, fino a un attimo fa, mi era appunto segreta: non la conoscevo, mi si è svelata. L’ho imparata da lui: dalla sua abilità. E dalla somma arte del karate».

*** Massimo Ferrario, 1998. Rielaborazione originale di una favola zen. Anche in M. Ferrario, a cura, Mixtura 99, Dia-Logos, Milano, dicembre 1998.

2 commenti:

  1. Un grande insegnamento, attraverso queste favole offri modelli formativi con profonde riflessioni, un piacevole arricchimento a costo zero.
    Un caro saluto
    Francesco

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  2. Grazie, Francesco. Come sempre i tuoi feedback mi rincuorano.
    Non è tanto questione di narcisismo (che pure non manca: e del resto non avrei potuto fare consulenza e formazione per quarant'anni, in posizioni non proprio defilate, se non ne avessi avuto un po'...!).
    E' che la motivazione, soprattutto quella intrinseca e quindi 'gratuita', va 'nutrita'.
    E nutrimento è (anche) sapere che l'impegno che metti nel fare una cosa è 'visto'. E magari anche 'apprezzato': perché ritenuto 'utile'.
    Io non cerco nessun grazie, ovviamente. La decisione di 'fare' Mixtura non me l'ha imposta nessuno. Mi ci dedico perché, almeno finora, ogni giorno decido di dedicarmici. Dunque, nessuno mi 'deve' nulla.
    Però, perché questo impegno (come ogni impegno basato non su una gratificazione economica, ma solo sul piacere di svolgerlo) possa continuare a essere svolto (anche quando magari un po' ti pesa: ed è 'sano' che ogni tanto ti pesi), bisogna che uno continui a 'vederci dentro' un 'senso'.
    Ecco, tu ed altri che mi inviate riscontri, questo impegno lo nutrite.
    Grazie. A te e a loro.

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