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sabato 18 aprile 2015

#ARK #IMPRESA & SOCIETA' / Onnipotenza del discente e fallimento dell'apprendimento, 1992 (M. Ferrario)

Ecco un altro mio articolo che ho riesumato recentemente dalle carte dell'archivio.
Tocca un tema importante e, a mio avviso, tuttora non sufficientemente esplorato: mi riferisco a quella onnipotenza del discente che può causare il fallimento dell'apprendimento.
Naturalmente, ponendo sotto il riflettore questo punto, non intendevo allora (e non intendo oggi) assolutamente sminuire la responsabilità di chi dovrebbe facilitare il processo di apprendimento: il cosiddetto 'formatore'. Che rimane un soggetto evidentemente fondamentale, benché non esclusivo, nella relazione didattica.
Il testo è del 1992, e l'ho recuperato grazie ad un amico che, avendone perso la fotocopia, mi ha spinto recentemente a rintracciare il numero della rivista, da anni scomparsa.
Poiché mi pare dica ancora qualcosa, sia nell'analisi degli assunti che possono far fallire l'apprendimento, che nella riflessione finale, in cui c'è un timido accenno al 'che fare', lo ripubblico nel blog. 
Come avviene per queste riscoperte di archivio, non ho operato alcun rimaneggiamento, neppure formale.

° ° °
Le due onnipotenze
Da sempre i formatori conoscono la loro onnipotenza. Magari, ancor oggi, ogni tanto, si dimenticano di gestirla; ma che esista, non ne dubitano. In fondo, da essa sono nati: il termine stesso - formatore - tradisce il peccato di origine della professione e continua a rappresentare, costantemente, un rischio di arroganza. Formare gli altri? E con che diritto? E siamo sicuri di aver formato, innanzi tutto, noi stessi?
Sono domande che ogni tanto, chi si occupa di formazione, si fa. Anche se i più anziani, provando qualche disagio, fuggono presto via: ripensano a quando, all’inizio del loro percorso professionale, si avvitavano in lunghe e ideologiche dispute sul ruolo - chi siamo? con chi stiamo? a che cosa serviamo?
Oggi si sorride: viene subito in mente il famoso "saperlo, ah saperlo" di Pazzaglia (°). Ci siamo convinti che dobbiamo essere tutti concreti, decisi, determinati: non c’è più tempo per l’adolescenza, è l’epoca dell’adultità.  Come se l’adultità fosse uno status e non una conquista da ripetere continuamente e gli adulti, per restare tali, non dovessero tornare a ri-crescere: ri-farsi domande, ri-tenersi aperti dai dubbi, ri-accettare di non avere risposte.
Ma tant’è: il termine formatore è entrato nel linguaggio corrente, professionale se non comune. E questo è comunque un dato positivo: segnala il cammino di un mestiere che, al di là della denominazione, ha ormai certamente un suo spessore. E non soltanto perché chi lo ha iniziato e lo fa da più anni è in buona parte riuscito ad assicurarglielo, ma soprattutto perché questo spessore è sempre più strutturalmente giustificato. Viene fuori, cioè, non da un desiderio interessato di una corporazione, bensì da come è fatta la società di oggi: è il prodotto di un’esigenza autoevidente, perché basata sulla materialità dei fenomeni e dei problemi da cui siamo avvolti.
La risorsa conoscenza è divenuta la risorsa strategica, si dice: e per confermare la verità di questa affermazione si possono anche scomodare i più illustri studiosi di post-industriale, ma qualunque persona dotata di normale capacità di "intelligere" - che sappia osservare, riflettere, ascoltare: leggere la realtà mettendone insieme i nessi, insomma - può concordare, avendo, su questo punto, più esperienza di un esperto.
I formatori esistono, dunque, perché conoscenza e formazione sono tutt’uno. Ed aumenta il bisogno di professionisti veri: che abbiano una competenza dedicata e mirata non tanto nel dare forma agli altri - e men che meno nel dare formule -, quanto, se mai, nel dare strumenti per dar forma alle cose.
Per far ciò, non servono né superbia né furbizia: questi sono arnesi sempre validi, e utilissimi, se si sceglie, in via esclusiva, il proprio tornaconto. Ma sono spuntati, anzi pericolosi, se si ha, come si proclama, l’obiettivo di lavorare sulla risorsa conoscenza. La quale richiede un avvicinamento attento, consapevole, anche rispettoso, solitamente faticoso: perché non ama né la supponenza di chi pretende di saper tutto, né la presunzione di chi,  facendola sempre facile, vende mezzucci onnirisolutivi, acquistabili senza sforzo purché a prezzi stratosferici.
Sui formatori si è scritto e riflettuto più volte: la loro responsabilità nel processo di apprendimento è scontata. La loro preparazione specifica, il loro stile di rapporto inter-personale sono fattori chiave nel determinare l’efficacia o meno di un progetto formativo. E sono convinto che non si farà mai abbastanza, specie in un’epoca quale l’attuale in cui per molte professioni non sempre dietro il fumo si riesce a scovare 1’arrosto, per consolidare il mestiere di chi si investe della responsabilità di far apprendere altri.
Ma non va dimenticato l’altro polo del processo: il discente. Lo sappiamo da tempo: non si è mai soli a produrre degli effetti. E, quindi, non siamo mai soli ad avere responsabilità.
La riflessione sul campo di questi ultimi anni mi ha condotto ad esprimere una forte convinzione. A frenare, o a deviare, i processi di apprendimento concorrono due onnipotenze: la prima, più nota e indagata, è quella appunto del formatore, ma la seconda - che rischia di divenire più pericolosa, proprio per la sua relativa scarsa presa in considerazione - è quella del discente: il quale dichiara di voler apprendere, ma di fatto mette in atto tutta una serie di atteggiamenti e comportamenti che, mentre frustrano l’obiettivo dichiarato, spesso gli consentono poi di addossare al formatore la responsabilità del proprio personale fallimento.

L’onnipotenza del discente: il meccanismo nella sua essenza
Cercherò di descrivere il meccanismo dell’onnipotenza del discente nella sua essenza, per punti sintetici. Come già detto, si tratta di  considerazioni  nate dal campo, in particolare con gruppi di giovani. Il fenomeno, però, se si accentua su talune popolazioni, ha una diffusione ampia e riguarda  gruppi  eterogenei  per anzianità, aziendale e anagrafica, e per tipo di professionalità. E’ quindi da pensare che esista un influenzamento di base di  natura culturale: ovviamente, alcuni tratti del  sociale  che connotano il nostro vivere di oggi si ripercuotono anche in aula, orientando e determinando i modelli con cui i gruppi cercano di apprendere.

(1) - Esiste un assunto di partenza - naturalmente non consapevolizzato e dunque non verbalizzato - che predispone il discente verso uno stile di apprendimento a rischio: si sviluppa in due tempi, passando attraverso due affermazioni. 
La prima: 'debbo imparare subito'. 
La seconda: 'posso imparare subito tutto'.
La prima affermazione tradisce già la componente di onnipotenza: il debbo e il subito, se sono in linea con la cifra un po’ nevrotica della fretta, che segna la società attuale, poco si conciliano con un processo - quello dell’apprendere - a cui fa bene la volontà, ma male il volontarismo e nel quale i tempi possono essere ottimizzati, ma mai azzerati.
La seconda affermazione esaspera l’aspirazione, già un po’ pervertente, della precedente: il 'debbo' si trasforma in un ancora più convinto, sicuro e svettante 'posso' e ambedue confluiscono, addensandosi minacciosamente, dentro quel 'tutto' - ultimativo - che non può avere, dopo di sé, che un punto di fine periodo: a segnare, razionalmente, non un obiettivo, ma se mai un delirio.

(2) - La seconda tappa è rappresentata da un altro duplice assunto: 'ciò che mi serve esiste e gli altri - il formatore, in particolare - ce l'hanno'.
Si tratta di una credenza vissuta in chiave dogmatizzante e come tale potenzialmente fuorviante. Ovviamente, pensare che il sapere esista di per sé, fuori di noi, e che altri lo posseggano, può costituire una forte motivazione intrinseca a farlo proprio. Tuttavia, rivela anche una concezione statica e meccanicistica della formazione: in linea con il modello scolastico, per il quale, com’è noto, l’apprendimento è inteso, idraulicamente, per "versamento" - chi lo possiede, lo versa a chi non lo possiede -; ma certo poco in linea con la realtà dei fatti: ossia con quella formazione continua, - non istituzionalizzata e perciò impalpabile, ma quanto mai feconda - cui possiamo approvvigionarci tutti i giorni, dentro e fuori i contesti di lavoro, per imparare la sapienza del vivere e, soprattutto, del "con-vivere".
Apprendere, insomma, implica una interazione: con il formatore, con l’oggetto dell’apprendimento, con se stessi. Indica un processo, più ancora che un contenuto. E i processi domandano coinvolgimento del discente: non avvengono in un "fiat", ma esigono un cammino, uno sforzo di avvicinamento, una volontà di perseguimento. Il sapere, forse,  c’è: ma quello che serve davvero al discente non lo possiede nessuno, né il formatore né altri. Solo chi apprende, se lo vuole, può prenderselo; ma con un’azione di moto a luogo - 'ad-prenderselo' -: nel senso che se lo deve costruire, conquistare, indossare come un vestito su misura.

(3) - Gli assunti alla base del meccanismo dell’onnipotenza si articolano ulteriormente con il passaggio al terzo tassello: 'che lo vogliano o meno, comunque gli altri - e in particolare il formatore - questo apprendimento me lo debbono dare'.
Qui l’avvitamento volontaristico si approfondisce, colorandosi perfino di psuedogiuridicità: l’apprendimento, per me discente, è un mio diritto e l’unico mio dovere sta nel pretenderlo. Il ragionamento - sempre a livello più o meno inconsapevole - si vena di aggressività, e nel contempo consente la più limpida delle deresponsabilizzazioni: tu formatore possiedi la chiave del mio apprendimento, io non posso fare altro che chiederti, con le buone - la seduzione - o con le cattive - il ricatto giocato sulla professionalità: ma allora non sai il tuo mestiere - di darmela.

(4) - In tutto quanto sopra è ovviamente implicito il quarto assunto: 'io discente non voglio pagare alcun dazio per il mio apprendimento'.
Il che significa che non intendo assumermi alcun rischio: voglio un apprendimento sicuro e gratuito,  che eviti accuratamente i possibili scacchi insiti in qualunque processo autonomamente scelto e governato. Pretendo, insomma, la garanzia del successo: non sono disposto a vivere la frustrazione dell’errore.
Se dev’essere "imparare facendo", sia pure:  ma con l’assicurazione che il fare produca sempre e comunque la riuscita. Altrimenti dichiaro forfait: ma se questo avviene, ancora una volta tu formatore - e non io discente - sei responsabile del mio non-apprendimento. Perché significa che il dispositivo didattico non è stato all’altezza: i modelli, ma soprattutto gli strumenti - le tecniche, per definizione sempre insufficienti, che sono state distribuite - non sono adeguati: in quanto hanno lasciato troppa discrezionalità d’uso e questa discrezionalità non è stata sorretta, orientata, pilotata all’unico vero obiettivo, che è quello di non far fallire il discente.
E’ un’attesa che noto montare come sempre più forte e compatta, anche dietro - e dentro - la legittima richiesta di maggior concretezza rivolta alla formazione. Si verbalizza esattamente il contrario, ma il senso pieno della domanda che rigurgita dalla maggior parte delle aule - anche di gruppi professionalizzati, e dunque in condizioni di maggior possibilità di padroneggiare se stessi,  oltre  che  il  proprio  mestiere -  è verso l’acquisizione di una procedura: non una norma burocratizzante, ma una tecnicalità certamente funzionale. Un bisogno di farmaco, con la ricetta allegata: che prescrive quando, quanto, come. Da usare con facilità: e se non funziona, colpa del medico.

(5) - L’ultimo assunto non incide tanto sulla onnipotenza del discente, ma è ugualmente distruttivo, ai fini del processo didattico: perché impedisce, ancora una volta, a chi apprende di alzare la testa e di appropriarsi in maniera piena e compiuta del suo apprendimento. Provocatoriamente, potremmo sintetizzarlo in uno slogan: 'apprendere è bello'. O, in maniera ancora più precisa e chiara, discente è bello.
Nessuno, com’è naturale, mette in discussione il significato letterale, e profondo, delle due affermazioni: esiste, connaturata all’apprendimento, una bellezza che è prodotto del processo stesso dell’imparare, e da questa l’apprendimento trae vita e alimento - si potrebbe dire che l’estetica dell’apprendere ne rappresenta il motore -.
Quel che si vuole però qui sottolineare è l’uso protettivo che di  questa bellezza, dietro questo assunto, viene fatto. L’apprendere è usato come schermo difensivo, come nicchia: per incistarvicisi dentro, a mo’ di bozzolo. E ricavarne calore e rassicurazione.
Sto apprendendo, sembra scusarsi il discente. Come dire: sono in una situazione franca, privilegiata, lontana dal 'fare' - rumoroso, sempre più impegnativo, misurato (valutato) e quindi responsabilizzante -. Sono - e correttamente mi penso - fuori dalla mischia: non debbo render conto a nessuno, perché ancora non so. Domani sarò pronto per misurarmi con il fare: oggi no, oggi sono in formazione, appunto.
Il ragionamento, sul piano esterno, non fa una grinza. Sappiamo tutti che in realtà l’apprendimento riesce se viene in qualche modo difeso: predisposto, circoscritto, sostenuto, allevato, curato. E per far questo, c’è bisogno anche di "codice materno". Tuttavia, nell’apprendimento come in altri processi della vita, la protettività può  assumere un risvolto imprevisto: di segno opposto. Può, ad un certo punto, non aiutare: e bloccarci,  isterilirci. Insomma:  si può morire anche avvolti dal caldo respiro dell’amore.
In questo caso, il bozzolo, anziché servire a far spiccare il volo, si trasforma in carcere dorato: è un invito ammaliante a restare fuori dal mondo, rassicurati per non doverci misurare col mondo. E scatta l’immagine, seducente, di un apprendimento bello perché continuo, eternizzato: nel quale possiamo coccolare le nostre ansie e posporre a un domani sempre posposto la responsabilità di applicare quanto appreso. In definitiva: una gravidanza infinita. E come tale, finta - o isterica -: dalla quale non si esce - appunto perché finta - neppure con un taglio cesareo.

Alla radice dell’onnipotenza
Ribadisco: ho presentato gli assunti in modo schematico e volutamente estremizzato. In base alla mia esperienza, essi rappresentano il non-detto, ma soprattutto il non-consapevolizzato, di molti discenti di programmi di formazione, manageriale e non.
Se li accettiamo, sorgono però almeno due domande: la prima è un semplice perché, la seconda è un che fare.

(1) - Circa il "perché", riconduco molte possibili spiegazioni dentro un’unica categoria, che mi pare costituisca uno dei tanti tratti - rilevati anche da ricerche empiriche e a sfondo psicologico - del vivere di oggi: la 'fragilità'.
Mi pare circoli diffuso un deficit di adultità. E qui ovviamente l’anagrafe ha un peso considerevole, ma non è tutto; come è dimostrato dai molti, giovani ed ex, che sempre più faticano a trovare ancoraggi positivi e a solidificare, con una convinta fiducia di base  in se stessi, la propria personalità - per esempio, accettando il cambiamento, senza per suo effetto andare insieme.
C’è un bambino in ognuno di noi che ci può arricchire: fecondandoci l’agire razionale - scaldandocelo alla fiamma delle emozioni e dei sentimenti e aprendocelo alla creatività -, ma c’è pure un bambino che spezza, o devia, i nostri sforzi di crescita. Questo secondo bambino può trasformare il nostro "apprendimento" in un semplice, sterile "prendimento": una richiesta incessante, aggressiva pure, di oggetti da immagazzinare, nel più breve tempo possibile, ma anche con i tempi più lunghi possibili.
L’etimologia di 'imparare' rimanda al 'procacciarsi', al 'comprare e mettere dentro'. Evoca un’azione e uno sforzo, proprio come apprendere. Tutto il contrario di un’oralità vorace e divorante quale quella che traspare in molte aule di formazione. Il processo di apprendimento si compie digerendo: la fase orale è indispensabile, perché il cibo venga acquisito. Ma è insufficiente. Subito dopo, infatti, iniziano le fasi attive, e la prima di esse è la masticazione - la prima digestione avviene in bocca, rammenta un vecchio adagio -. Fino a questo momento altri possono aver aiutato a imboccare, ma a partire da qui il soggetto è determinante: e i rischi di masticarsi la lingua, o che il cibo vada di traverso, sono tutti di chi mangia e deve far fruttare, con un buon processo digestivo, ciò che ha mangiato.
Credo che spesso tutto ciò voglia essere evitato: si vuole la 'procedura' per evitare il 'processo', si vogliono i 'risultati' senza aver percorso il 'cammino'.
L’apprendimento è sinonimo di cambiamento, e ogni cambiamento è tortuoso, non rettilineo. Compito di chi è chiamato a facilitarlo è quello di tentarne una qualche normalizzazione - evitando, ad esempio, le secche -, ma mai di soffocarne la vitalità. L’apprendimento si muove per "anse" e anche per questo solleva "ansie": è sempre in qualche misura "erratico ed eretico", ha una meta ma segue molte strade - e talvolta anche i vicoli chiusi, se non portano da nessuna parte, portano però ad apprendere. Soltanto dopo, ad apprendimento / cambiamento realizzato, il percorso viene rettificato: e tutto appare chiaro, preciso, perfettamente determinato. Ma i conti, nel durante, non tornano mai, come tornano dopo: perché, nel durante, i conti si stanno facendo, mentre è dopo che si sono fatti.
Questo è il dazio da pagare: non si apprende senza preventivare qualche scacco, ed è sulle ferite al nostro narcisismo che cresce la nostra possibilità, e capacità, di imparare.
La fragilità, da questo punto di vista, ci è nemica, perché chiede un azzeramento del processo di apprendimento: o lo rifiuta in partenza, rimuovendo il passaggio dell’esperienza - 'per' è la radice etimologica che indica appunto 'passaggio', 'porta', 'viaggio' -, oppure lo rifiuta nei fatti, fantasticando linearità inesistenti, benché rassicuranti.
E qui nasce spesso l’ultima domanda impossibile - sintesi massima di onnipotenza - lanciata al formatore: non mi bastano le conoscenze, le capacità e i comportamenti che tu mi puoi trasmettere, voglio la tua esperienza.

(2) - Resta qualche ultima considerazione sul "che fare".
Se l’analisi sopra tratteggiata ha un senso, appare ovvia la complessità insita nel tentare una risposta al problema: per modificare un modello di apprendimento, bisognerebbe a questo punto picconare tutta una cultura, non soltanto educativa, ma sociale. E scagli il primo piccone chi può dirsi fuori da un simile condizionamento.
Qualche spunto, tuttavia, si può forse suggerire, anche perché una certa consapevolezza al tema già esiste e sforzi di attacco alla questione qui trattata si sono già compiuti e si stanno tuttora compiendo.
Credo che la sensibilità di noi formatori sul fronte pedagogico - andragogico, direbbe qualcuno - si stia acuendo: e ciò, evidentemente, non può che essere di aiuto. Ma probabilmente occorrerebbe da parte nostra una migliore precisazione, anche in chiave didattico-operativa, dei contenuti specifici che stanno dentro la diffusa espressione "imparare a imparare". Perché è sicuro che tale espressione non può limitarsi ad essere uno slogan ed è proprio lo sviluppo di una competenza specifica di questa natura - come sempre: da insegnare, da una parte, e da apprendere, dall’altra - che può meglio governare i processi di apprendimento.
Non era previsto, in queste note, di aprire anche questo capitolo, ma ci limitiamo a un’osservazione, che peraltro discende come corollario da quanto sopra accennato.
E’ difficile "imparare a imparare" se non ci convinciamo della possibilità di saper gestire la 'frustrazione': se non abbiamo fiducia nelle nostre capacità di "e-laborarla" - quindi di non rimanerne vittime -, rilanciandola in positivo all’interno del processo di apprendimento. E’ vero, si impara dai successi: ma anche dagli insuccessi, se li sappiamo usare - e non ci facciamo schiacciare. Cercare di vincere è legittimo e motivante insieme: accettare la possibilità di perdere e trasformare la perdita in occasione di apprendimento è uno dei modi per cercare di vincere.
Temo che molti, e non solo fra i nostri discenti, ripetano parole lette nei libri. Per non scappare da una logica realmente produttiva di apprendimento, occorrerebbe chiedersi, ad esempio, se nell'entrare in un processo di apprendimento, noi o gli altri ci aspettiamo "conferme", per quanto già sappiamo, oppure "disconferme", che ci facciano vedere quanto ancora non sappiamo e dovremmo sapere; se cerchiamo spazi per imparare, oppure occasioni per rifiutare; se il tempo necessario per percorrere il cammino dell’esperienza - che è l’unica cosa che un altro non può darci - lo sentiamo perdita, oppure investimento; se siamo ancora aggrappati al mito del "detto-fatto", - la vecchia favola raccontataci da piccoli -, oppure se ormai sappiamo davvero che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare solo quando abbiamo deciso di non esserci noi; e  infine, se  nonostante tutto il proclamato dell’epoca della caduta delle illusioni, tuttora ci balocchiamo con i dogmi della supremazia della linearità scientifico-razionale e con le visioni del mondo incentrate sul trionfo della 'luce',  per le quali non esistono le 'ombre' o,  se esistono, sono un fastidio e un incidente della realtà.
Conosciamo tutti il pendolo dell’onnipotenza. 
Anche in questo caso, i primi formatori vengono da lontano e hanno radici classicheggianti, che risalgono ad Esopo: forse c’è un che di moralistico, per molte orecchie di oggi, in quel 'chi troppo vuole nulla stringe', ma personalmente continuo a trovare azzeccata, perché lapidaria, questa psicologia.

Formatori e discenti sono condannati, se vogliono realizzare l’oggetto che dà giustificazione istituzionale al loro ruolo, a responsabilizzarsi su un impegno reciproco: ogni fuga porta a un polo del pendolo, con relative illusioni e delusioni cocenti. Si tratta di posizioni "de-realistiche", si usa dire in gergo: e potremmo tradurre con "finte", se il finto non facesse sempre più parte della realtà.
Apprendere anche questo può essere una cosa seria e se ciò non garantisce l’adultità come stato, almeno ci mette in corsa per provare a conquistarla, ogni tanto.
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(°) Il riferimento è a Riccardo Pazzaglia, 1926-2006, giornalista e scrittore. Nel 1985 partecipava al programma tv Quelli della notte, di Renzo Arbore, e un suo gioco-tormentone consisteva nel porsi, prima, le domande fondamentali della vita («chi siamo? da dove veniamo? ove andiamo?...»), e nel rispondersi, poi, con il ritornello «...saperlo, ah, saperlo...».

*** Massimo Ferrario, Formazione: l’Onnipotenza del Discente. Come far fallire il proprio apprendimento, ‘SL – Rivista di organizzazione’, Associazione Italiana Studio del Lavoro, n. 2, giugno 1992. Testo riproducibile citando autore e fonte

Su un argomento in qualche modo correlato, segnalo un mio contributo, sempre nel blog, in forma di slide:
#Impresa #Slide, Giovani (e non solo): la deriva Relazione-Contatto, 
12 febbraio 2015, qui

3 commenti:

  1. Fotografia perfetta di un' attualitá quasi commovente nel momento in cui riconosco me stesso discente nella frase: "E scatta l’immagine, seducente, di un apprendimento bello perché continuo, eternizzato: nel quale possiamo coccolare le nostre ansie e posporre a un domani sempre posposto la responsabilità di applicare quanto appreso.

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  2. Bellissimo, da rileggere e rileggere più volte per masticarlo e digerirlo.
    In particolare segnalerei l’affermazione al punto 5 , apprendere è bello.
    Spesso il rischio di noi formatori, giocare su questo aspetto per venire incontro ad una domanda che richiede sempre più spesso un fast&enjoy training.
    Forse per distinguersi dal formazione scolastica, i cui ricorsi sono legati a noia e fatica, spesso si accentua la dimensione ludica, trascurando il tema della fatica, del tempo necessario a produrre cambiamenti.
    Stefano Pollini

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