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lunedì 2 marzo 2015

#SPILLI / Problem solver, o piuttosto baro (Massimo Ferrario)

(via LinkedIn)

Su un network professionale assai noto e frequentato anche da molti più o meno sedicenti formatori e addetti allo sviluppo del personale (o, come dicono 'loro', delle 'risorse umane', credendo così di valorizzare le persone, invece ridotte a pedine più o meno 'usa-e-getta'...) imperversa, ormai da qualche anno, in varie forme e formati, un messaggio originariamente riconducibile alla immagine/vignetta sopra riportata.

Naturalmente è in inglese (*). Perché così piace di più. 
E naturalmente i commenti continuano ad essere entusiastici nei confronti dell'ignoto autore: «Geniale, creativo, stupendo, grandissimo...»

Mi è capitato a suo tempo di dire la mia. E qualcuno per la verità si è mostrato d'accordo, prendendo le distanze dalla massa dei colleghi inneggianti.

Poiché però il messaggio ha ripreso a girare in crescendo, secondo la ben nota viralità della rete, insisto nel ribadire il mio pensiero, anche al di fuori della stretta cerchia di un network professionale.
Conoscendo l'ingenuità di molti sedicenti addetti ai lavori, temo infatti che il messaggio possa venire usato nella selezione di candidati come pseudo-test per stabilire chi è un vero 'problem solver'. 
Serve quindi una 'allerta' diffusa: caso mai qualcuno si sentisse sottoposto a un simile 'giochino', in un momento serio come un colloquio di lavoro, abbia almeno argomenti per controbattere a una delle solite tante (ma pericolose) 'americanate'.
Gli americani, com'è noto (non tutti e non sempre; ma molti e spesso) ridono per poco. E magari anche in questo caso, quando non c'è da ridere. 
Ma noi, che americani non siamo, anche se entriamo subito in dipendenza quando leggiamo scritte in inglese, possiamo non fare gli americani quando non è il caso? 

Se logica e parole continuano ad avere un senso (e, nel mio piccolissimo, combatto da una vita, quasi inutilmente, perché ce l'abbiano), il cosiddetto 'problem solver' cui nella vignetta si inneggia non è un 'problem solver'. Mentre io, come dice la scritta sotto l'immagine, amo davvero i 'problem solver'. 
Ma mi piacciono, meglio se in italiano, quelli che realmente risolvono problemi.
Non i bari. Non gli sbruffoni.
Perché di questi, bari e sbruffoni, ne abbiamo già troppi in Italia. Dentro e fuori le imprese. E non mi pare ci sia bisogno ora di gente che, per prenderci in giro meglio, parli pure americano.
Sto intervenendo, anche non dissimulando una certa enfasi, perché il mio dubbio è semplicemente quello che un baro, o uno sbruffone, possa passare, nella cultura attuale e nello spirito dei tempi, per un geniale creativo positivo. O che addirittura possa diventare, come già detto, un modello, più o meno esplicito, da usare come test per la selezione di candidati. 

Nella immagine propagandata infatti non c'è nessuna soluzione di un problema. 
Ma l'invenzione di un altro problema. 
Tra ottimismo e pessimismo si sceglie di aver sete (probabilmente senza neppure averla) e si vuota il bicchiere. 
E' una 'trovata': punto e basta. 

Risolvere un problema significa partire e stare ai dati del problema. Di 'quel' problema. 

Ad esempio: il primo che, secoli fa, alla solita trita domanda tra essere pessimista o essere ottimista, ha risposto di essere 'realista' è stato creativo e (a mio avviso) intelligente. E' sfuggito alla polarità e all'implicito messaggio del 'tertium non datur' inventandosi un 'tertium'. 
Ma non è fuggito dalla domanda-problema che vuole sapere qual è l'atteggiamento del rispondente verso la realtà. Infatti ha risposto: realista. 
Oggi, chi rispondesse ancora così, non sarebbe più creativo, perché ripeterebbe una risposta infinite volte ripetuta, ma (a mio avviso) resterebbe intelligente: perché farebbe capire di non seguire il becero e beato (beota) 'pensiero positivo' che riciccia anche attraverso questa immagine, come messaggio 'vincente' neanche tanto implicito. 

Ancora: immaginiamo di essere di fronte a un nodo ingarbugliato. 
C'è chi si mette pazientemente a tentare di scioglierlo, con approccio psicoculturale da codice 'femminile', come probabilmente cercano di fare tutti di primo acchito. Oppure c'è chi, con approccio da codice tipicamente 'maschile', interviene subito a tagliarlo: nello stile 'macho' che oggi tanto continua a piacere ai maschi e ha iniziato a piacere in modo dilagante, ormai, a troppe donne rampanti in 'similmaschio'. 
Maschi e femmine usano modi, e stili psicologici, differenti. Ma sia gli uni che le altre risolvono il problema. E infatti il nodo non c'è più.

Qui invece le cose stanno diversamente. 
Ecco perché l'americanata è un'americanata. 
Se scriviamo appunto 'americanata' , o 'barzelletta', sotto l'immagine, al posto di 'io amo i problem solver', ci sto. Altrimenti, se usiamo le parole giuste, più che un'americanata mi pare una parola volgare che evito di scrivere. 
Certe americanate sono ancor più pericolose in tempi di 'fast thinking': quando il pensiero è talmente veloce che non ha tempo di pensare ed è già passato. Senza esserci peraltro mai stato.
E quando noi tutti, troppo spesso, ci lasciamo affascinare dalla 'estetica' seducente di una battuta. Senza capire che è una battuta. E prendendola per una genialata. Magari da imitare seriamente. 

Certo, a voler dare una lettura del messaggio comunque almeno un po' valorizzante, un punto importante sta nel  fatto che l'interessato smette di chiudersi nella polarità ottimismo/pessimismo e 'fa'. 
Ma allora diciamo che il tizio in questione è uno che 'fa', appunto. Il che, rispetto al risolvere problemi, è cosa diversa e non necessariamente coincidente.
Senza contare (ma non voglio tediare ulteriormente) che ci sarebbe molto da riflettere su chi evita le domande e si vanta di passare sempre e solo all'azione.
Perché è anche facendo pur di fare che non si risolvono i problemi. O si complicano. O si fanno cose che sarebbe stato meglio non fare. 
Basta guardarsi in giro.  
Siamo immersi in un 'fare' che è quasi solo un 'darsi da fare' e ha sempre meno a che 'fare' (la cacofonia del 'fare' è voluta...) con un 'agire'  pensato e orientato a risolvere problemi.
Abbiamo dimenticato che fare e agire non sono verbi sinonimi. E nessun fare potrà mai essere un agire se non è frutto di un pensiero, di un'intenzione e di una direzione attesa e cercata.
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(*) «Durante un'intervista mi è stato posto di fronte un bicchiere d'acqua pieno a metà. Mi fu domandato se ero un ottimista o un pessimista... Io mi sono bevuto l'acqua e ho detto che ero un 'problem solver'.
Sono da amare questi 'problem solver'.»

*** Massimo FERRARIO, Problem solver, o piuttosto baro, per Mixtura

2 commenti:

  1. sarò banale e ripetitivo, ma condivido pienamente il tuo intervento, e non aggiungo altro poiché, quello che esprimi è pura verità.
    Un caro saluto
    Francesco

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  2. Francesco, ti posso assicurare che non sei banale e men che meno sei ripetitivo: se è vero, come è vero, che continuo a vedere colleghi che 'si bevono' questa 'americanata' come fosse una 'genialata' da invidiare.
    Senza sognare grandi e improbabili prese di posizione pubbliche, anche in questo blog, qualche reazione sarebbe augurabile.
    E' sempre amaro vedere come troppe 'menti piccole' si facciano abbindolare da qualche illusionista.
    All'amarezza si aggiunge la preoccupazione quando questo riguarda anche cosiddetti professionisti che operano 'con' le persone (sperabilmente non 'sulle' persone): per il mestiere che fanno, se dimenticano di sottoporre alla prova-cervello tutto ciò che ricevono via web, possono moltiplicare i danni. E non solo sul piano culturale.

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