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sabato 28 marzo 2015

#CASI FORMATIVI / Il manager (M. Ferrario)

Sandro Fortis, 30 anni, laureato in economia e commercio, è impiegato da quattro anni in un grande gruppo multinazionale che produce e commercializza beni di largo consumo.
Per due anni ha lavorato alla Direzione Marketing e da due anni è alla Direzione Vendite. Qui ha coperto per un anno la posizione di venditore e da un anno è responsabile dell’Ufficio Controllo delle Forze di Vendita.
Questa che segue è una parte della riflessione sui suoi problemi di lavoro, che sta comunicando a un amico.

«Sì, confesso che sono un po’ stufo di questa situazione. Io, in questa azienda, ci ho investito molto: ci ho creduto, mi son dato da fare, ho spinto gli altri a credere in quello che facevano. Eppure, adesso, forse per la prima volta, comincio a nutrire qualche dubbio: che sia giunta l’ora di guardarmi in giro e magari di provare una nuova esperienza?

E’ il solito problema: la realtà da una parte e le dichiarazioni, i proclami, dall’altra. A parole è tutto facile: i valori, le politiche, i piani, le azioni tornano sempre. Nei fatti, invece, le contraddizioni non si contano. Loro dicono: siete dei manager. Nei convegni, nei seminari, nelle riunioni, la parola d’ordine è sempre quella: occhio ai risultati, noi vi valutiamo su questi, tutto il resto è secondario. E io i risultati li ho portati. Caspita, se li ho portati. Mi hanno dato in mano quel reparto che era a terra: uomini demotivati, clima teso e conflittuale con l’azienda, organizzazione a zero. Mi ci sono buttato: sono stato vicino a tutti, ho cercato di capirli, li ho aiutati. Hanno visto che era possibile lavorare meglio e si sono impegnati: è cresciuto l’interesse per il lavoro, il gruppo si è amalgamato, la produttività è salita. Ho fatto tutto da solo, senza chiedere niente a nessuno. E infatti le cose hanno funzionato. Almeno finché ho potuto agire nell’ambito delle mie responsabilità. Ad un certo punto, però, sono stato costretto a coinvolgere l’azienda. E qui sono cominciati i guai: gli scontri sui passaggi di livello e sugli aumenti di merito.

Sì, perché si ha un bel dire che i soldi non sono determinanti ai fini delle motivazioni. Io, per parte mia, non ho mai visto nessuno che fa niente per niente. E’ una regola che vale per tutti, mi sembra: per chi sta in alto e per chi sta in basso. Altrimenti mi devono spiegare come mai i grandi manager hanno gli stipendi che hanno...
Mi sembrava ovvio riconoscere l’impegno e i risultati a quelli dei miei che più si erano dati da fare. Non si parla sempre di merito e di meritocrazia? Invece niente. Quelli del Personale, tanto per cambiare, mi hanno bocciato ogni proposta. Naturalmente, hanno addotto i soliti motivi: la politica retributiva, le relazioni sindacali, le logiche di job evaluation... Certo, avranno anche ragione, dal loro punto di vista. Però devono decidersi: non si può spingere le persone a responsabilizzarsi sui risultati e poi negare i mezzi necessari per raggiungerli. E’ un controsenso. ‘Sistema premiante’, lo chiamano. Bene: e chi lo deve gestire, questo benedetto sistema premiante, se non il capo? Lo dicono anche loro, mi pare. E io, tra l’altro, con le persone mi ero praticamente impegnato: in questo modo, uno ci perde pure la faccia.

Ma non basta. Ero anche riuscito a far nascere nei miei uomini un certo interesse per il loro aggiornamento professionale. Ero contentissimo. Mi ero inventato un piccolo progetto di formazione: un corso serale, due ore al giorno, con un po’ di tutto - amministrazione, marketing, comportamento organizzativo. Tutto regolare, perfettamente in linea con le politiche dell’azienda - almeno così pensavo. Prima di partire con l’iniziativa, ne parlo con il Personale. Loro, come al solito, la prendono alla larga: all’inizio non riesco a capire cosa ne pensano veramente, poi mi dicono che gli spiace, ma che è meglio soprassedere, che un’iniziativa del genere non può essere isolata, ma deve essere inserita in un piano più grande - di più largo respiro, dicono - e che l’azienda sta riconsiderando tutta la politica di formazione. In definitiva, un altro bel no, chiaro e tondo: e io me ne sono dovuto tornare dai miei a dirgli che avevamo scherzato, che il corso era stato rinviato e che eventualmente se ne sarebbe riparlato in primavera.

Ma come si fa a lavorare in questo modo? Altro che smontarsi. Da una parte, tanti bei principi, tante belle intenzioni, e poi, nella sostanza, tutto il contrario. Comincio a chiedermi come faccia questa azienda ad avere fuori l’immagine positiva che ha.
Perché il problema di fondo è quello della responsabilità. Se sei un manager, devi essere responsabilizzato. Hai una delega e dentro questa ti muovi. Devi poterci contare, su questa delega, altrimenti il gioco non funziona. Devi essere autonomo: devi poter fare le tue cose in libertà e su queste essere valutato. Se porti a casa i risultati attesi, ok; altrimenti, com’è giusto, paghi. Mi sembrerebbe un ragionamento logico, scontato perfino. Se no, che manager sei?

Qui, invece, tutto si risolve nella partecipazione a qualche riunione. La politica delle vendite, ad esempio. E chi ha potuto intervenire per dire la sua? Per quanto mi riguarda, io ho sempre trovato tutto già fatto: il piano di marketing, il piano di produzione. Quelli della programmazione arrivano in riunione e hanno già definito ogni cosa. Sì, un paio di mesi prima ti hanno anche interpellato, magari hai anche fatto un paio di riunioni con loro e con quelli del marketing, dando qualche input. Ma poi, tutto silenzio. E alla fine, grande riunione generale e il piano è pronto, già bell’e fatto. Come il famoso coniglio che esce dal cappello. E tu ti ritrovi lì, con le decisioni che ti sono piovute addosso, e non capisci le azioni che ne derivano per il tuo settore e per i tuoi uomini.

E poi si parla di responsabilizzazione, di professionalità...
No, la verità è che se vuoi essere considerato un buon elemento, una persona stabile e affidabile, non devi mai mettere in discussione nulla: devi accettare tutto, agire secondo le regole e le procedure e rinunciare a pensare con la tua testa. Obiettivi, strategie, politiche, risultati, rischio: soltanto belle parole. Con cui farci seminari e convegni. In pratica, tutto scende dall’alto: e a te è richiesto, semplicemente, di eseguire bene quello che gli altri hanno deciso di fare.

Managerialità, dicono. Guarda il mio caso. Io ci ho provato a fare il manager e hanno anche riconosciuto - bontà loro - che certi risultati li ho portati a casa. Ma forse, a loro, tutto questo interessa poco: l’importante è che le politiche, le procedure, le norme siano salve...».

° ° °
Domande per la riflessione:
(1) - Punti forti/deboli di Sandro Fortis
(2) - Riflessioni sul suo rapporto con l’organizzazione
(3) - Responsabilità dell’organizzazione
(4) - Analogie/Differenze con il contesto specifico di chi legge
(5) - Apprendimento chiave

*** Massimo Ferrario, rielaborazione di un testo di autore sconosciuto, utilizzato come materiale didattico per la riflessione su temi di comportamento organizzativo. Riproducibile citando autore e fonte.

2 commenti:

  1. "Ho fatto tutto da solo, senza chiedere niente a nessuno": questo é il passaggio chiave che spiega il malessere del manager. Ha venduto la pelle dell' orso senza averne neppure iniziato la caccia; e nelle organizzazioni i cacciatori solitari normalmente tornano col carniere desolatamente vuoto. Anche quando abbozza un atteggiamento condivisivo, come per il piano di formazione, lo fa in ottica rivendicativa per il proprio orticello, pro domo sua. Ma una grande azienda é composta da tante domus, e poi ci sono strade, piazze, pubblici esercizi e tutti i " beni comuni " che sono necessari al raggiungimento degli obbiettivi " aziendali". Non ci sono attenuanti per il Fortis: ha fatto tutto da solo. E purtroppo non é il solo, e la storiella non é "solo" un caso formativo: egocentrismo ed autorefenzialitá dividono et imperano semper in saecula saeculorum. Ma non diremo mai "amen".

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  2. E' un caso che ho discusso tante volte in aule più o meno manageriali (e forse anche tu, Paolo, ricordi qualcosa di simile...). Mi piace però sottolineare che non sempre (anzi: quasi mai) le analisi che ho ascoltato sono state così centrate e precise come questa che tu riassumi: perfetta. O, come si dice, 'non fa una grinza'...
    Usando una distinzione che traccio da sempre tra due termini che spesso vengono invece impiegati come sinonimi, il nostro Fortis ha confuso, in buona sostanza, 'autonomia' con 'autosufficienza'.
    L''autonomia' dice la capacità di muoversi, secondo leggi interne (autòs + nomos), dentro un sistema di regole e di vincoli (senza vincoli non c'è neppure libertà). L''autosufficienza', invece, fa credere di poter 'bastare a se stessi'. E mai nessuno ha potuto fare i conti senza gli altri, neppure all'epoca di Adamo (che infatti si è trovato subito accanto Eva). Figuriamoci oggi, in cui tutto è interdipendente e la complessità delle relazioni, umane e non, domina sovrana.
    Dopodiché ci sarebbe molto altro da dire sul caso. Magari si potrebbe riflettere sulla retorica manageriale corrente, che a furia di ripetere parole-slogan che uccidono qualunque 'pensiero critico' (quindi problematico) porta anche ai fraintendimenti qui visti, più o meno interessati e consapevoli.
    O quanto meno ci sarebbero domande da farsi sull'organizzazione in cui vive Fortis: dov'erano il suo capo e il capo del personale? Ma fermiamoci qui.

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