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domenica 15 febbraio 2015

#FAVOLE & RACCONTI / Sperare nel roseto

Quel giorno, il Capo Giardiniere del Regno aveva chiesto udienza urgente. 

Il Re era indaffaratissimo: aveva in agenda molti appuntamenti, con dignitari e ambasciatori. Importanti questioni internazionali dovevano essere risolte con i Paesi confinanti: la diplomazia aveva lavorato per mesi e ormai gli accordi avevano bisogno solo del suo intervento finale.
Ma il Re – tutti lo sapevano – teneva ai giardini dei suoi palazzi, disseminati per il Regno, in modo speciale.
Fece passare il Capo Giardiniere che attendeva nella stanza attigua al Salone della Corona.

Il Capo Giardiniere, appena fu giunto alla presenza del sovrano, si inchinò. Era scuro in volto: appariva contrito e preoccupato. 
«Maestà», disse, «ho una terribile notizia da darvi. Il giardino della Residenza Azzurra, che affaccia sul golfo del Mare Lucente, è ammalato».
Il Re, seduto sul trono, balzò in piedi come fosse stato punto da uno spillo. Era sorpreso e angosciato.
«Malato?». 
«Sì, Maestà. Alcune piante stanno deperendo a vista. Inspiegabilmente. Mi sono rivolto ai maggiori esperti botanici del Regno. Tutti scuotono la testa e si dichiarano incapaci di trovare un rimedio. Abbiamo provato ogni cura, ma la malattia finora ha la meglio. Tra un po’, se non la fermiamo, colpirà ogni albero».
«E i fiori?», chiese con ansia il Re. «Come stanno le rose, le viole, i garofani, i tulipani, le orchidee, le margherite…?»
«Per ora il male è circoscritto alle piante. Ma ho paura, Maestà, che anche i fiori, domani…». 
Non osò finire la frase. 
«Solo voi, Maestà, sapete parlare alle piante. Dovete chiedere loro le ragioni del loro deperimento. A voi risponderanno».

Il Re non esitò. Chiamò i segretari e annullò ogni appuntamento. Poi ordinò l’auto e la scorta e si fece condurre alla Residenza Azzurra insieme con il Capo Giardiniere.
Appena arrivato, si precipitò subito dalla Grande Quercia, la pianta che per prima aveva accusato i sintomi del male.
In effetti, la Quercia non mostrava più la maestosità che le era propria: il tronco era crepato in più punti, molti rami si erano rinsecchiti. 
«Stai morendo, Grande Quercia», commentò il re guardandola con dolore. 
«Sì, Maestà», rispose la pianta. «Sto male. Vorrei essere il Pino, così alto e slanciato. Lo invidio. Per questo mi consumo».

Il Re andò dal Pino. Anche il Pino denunciava evidenti segni di malessere: le radici si erano inaridite, gli aghi rinsecchiti erano sparsi a terra, la cima era ripiegata. 
«Dimmi, Grande Pino, cosa ti angustia?». 
Il Pino sussurrò una risposta a fatica, ormai esausto e rassegnato a diventare legna da ardere: «Maestà, ho saputo che qui accanto, nei poderi che ti appartengono, è coltivata una pianta che fa crescere grappoli maturi. Non mi interessa più svettare lassù in alto nel cielo. Vorrei essere la tua Vite, che ogni anno produce il miglior vino del regno. La invidio. Per questo mi consumo».

Il Re si recò dalla Vite. La trovò con i tralci ammosciati, gli acini rinsecchiti. 
Interrogò anche la Vite, che gli rispose: «Maestà, proprio l’altro giorno ho scorto nel Roseto la rosa più bella che mai sia fiorita. Anch’io vorrei produrre fiori tanto delicati e affascinanti. Invidio quella rosa. Per questo mi consumo».

In effetti, il Roseto quell’anno aveva generato dei fiori speciali: di profumo intenso e di colori ineguagliabili. Erano appena sbocciati. Ed erano nel loro massimo fulgore. 
Il Re gli si avvicinò, ammaliato dai petali vellutati e sedotto dalla fragranza; e si complimentò per la sua bellezza. «Sei splendido, Roseto: è un piacere immenso guardarti: sei il roseto più incantevole che io abbia mai avuto. Come fai a essere così bello?». 
Il Roseto gongolò per gli apprezzamenti. 
«Grazie Maestà, le vostre parole mi commuovono. Ma è stato facile per me essere bello. Quando il tuo Capo Giardiniere mi ha piantato, ho capito che non potevo che essere un roseto: non una quercia, non un pino, non una vite. E allora ho cercato di crescere come un roseto. Di essere il roseto più bello che potessi essere. E’ stato sufficiente ricordarmi sempre di essere ciò che sono».

Il Re guardò mesto il Capo Giardiniere. 
Commentò: «Si sta diffondendo una epidemia terribile. Come fosse un virus». 
Il Capo Giardiniere annuì. 
«Sì, è un virus, Maestà. E’ nell’aria. E non ha colpito solo le piante».
«Che vuoi dire, Capo Giardiniere?».
«Gli uomini, Maestà: il virus viene dall’uomo». 
Il Re sentì che il Capo Giardiniere voleva dire qualcosa di più profondo. E lo sollecitò con gli occhi a spiegarsi meglio». 
«Vogliamo essere sempre qualcun altro, Maestà. Mai noi stessi».

Il Re restò in silenzio. Era visibilmente turbato.
Da quel giorno lo si sentì spesso sussurrare: «Non ci rimane che sperare nel Roseto». 

*** Massimo Ferrario - Rielaborazione creativa che prende ispirazione da un racconto riportato in Luciano Marchino e Monique Mizrahil, Counseling. Trasformare i problemi in soluzioni, Frassinelli, 2007.


2 commenti:

  1. Una bella favola, molto attuale. Inseguire il modo di vivere altrui non ci soddisfa e poi non riusciamo più ad essere noi stessi. In alternativa, chi cerca di essere se stesso a volte si trova o si sente fuori posto, in quanto non ci sono (re) disposti a credere
    in noi.
    Un caro saluto con abbraccio
    Francesco

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  2. Grazie, Francesco.
    Un commento che trovo quanto mai azzeccato. La tua descrizione dei due corni del dilemma è perfetta, anche nella sua sinteticità: come dire, non sposterei una virgola
    Aggiungo solo: 'freghiamocene' dei re. E pure dei premier o dei presidenti.
    Sì, 'freghiamocene'. Non amo questo verbo, che sa di un antico passato in Italia mai passato: ma qui lo uso di proposito, per marcare, in questo caso, il disinteresse che è indispensabile abbiamo per chiunque non siamo noi.
    "Diventare ciò che si è" è compito nostro: è una delle pochissime attività non delegabili.
    E per questo, più o meno consapevolmente, tendiamo a scaricarne ad altri il peso.
    Esattamente quello che 'non' fa il roseto. Diventando uno splendido roseto, appunto.

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